mercoledì 5 novembre 2014

"La Sinistra assente" e la questione del socialismo in Cina: Diego Angelo Bertozzi replica a Luciano Canfora

D.A. Bertozzi, che ringrazio, è esperto di questioni cinesi e autore dei libri "La Cina da impero a nazione" (Simple) e, con A. Fais, de "Il risveglio del Drago" (All'insegna del Veltro) [DL].

Nella sua recensione del libro “La sinistra assente” di Domenico Losurdo, pubblicata sul Corriere della Sera del 3 novembre, il professor Canfora riconosce i meriti di questo testo ma ne critica le posizioni relative alla Repubblica popolare cinese. Secondo Canfora, il recente sviluppo economico di questo paese sarebbe in contraddizione con le premesse teoriche del socialismo cinese e della rivoluzione maoista e in questo senso lo “sforzo ermeneutico “ di Losurdo sarebbe “mal riposto”.
Con le sue affermazioni – non nuove – Canfora si inserisce insomma in un filone di pensiero ben consolidato – anche a sinistra – di condanna degli sviluppi di quello che si definisce “socialismo con caratteristiche cinesi” e che si riassume, per l'appunto, nel rigetto di un tradimento consumatosi nel post-rivoluzione culturale e sfociato in una restaurazione autoritaria del liberismo capitalista. La Cina, secondo una lettura divenuta ormai senso comune, non solo non rappresenta un'alternativa reale alla restaurazione liberista in atto, ma ne è, invece, parte attiva con il suo bagaglio di sfruttamento, diseguaglianze raccapriccianti e pulsioni imperialiste.
In fondo basterebbe poco per dimostrare che l'affermazione “lo stato di cose che si è affermato in quel grande Paese, trasformatosi ormai nell'esatto contrario di ciò che si proponeva di essere alla metà del Novecento” concede troppo alla vulgata dominante.
Si potrebbe partire dal discorso di Mao che il 1° di ottobre del 1949 sancì ufficialmente la nascita della Repubblica popolare cinese: “Ci siamo uniti, con la guerra di liberazione nazionale e con la grande rivoluzione popolare, abbiamo abbattuto gli oppressori interni ed esterni e proclamiamo la fondazione della Repubblica popolare cinese. Da oggi il nostro popolo entra nella grande famiglia di tutti i popoli del mondo, amanti della pace e della libertà”.
Da allora sono passati più di cinquant'anni e, quindi, possiamo chiederci in cosa il Partito comunista cinese abbia contribuito nella costruzione “dell'esatto contrario” di quanto preannunciato dal suo leader più eminente e tuttora ritenuto fonte di ispirazione e cardine ideologico. Ebbene, tra gli scopi originari della lunga rivoluzione cinese, portata a termine dal Pcc, c'era proprio quello della rinascita nazionale, della ri-conquista dell'integrità territoriale e della piena sovranità. Ebbene, difficile non vedere come proprio oggi questi obiettivi siano stati sostanzialmente raggiunti (anche se non del tutto), con il ritorno alla madrepatria di Hong Kong e Macao, con l'ormai concreta prospettiva di raggiungere il primato economico, con la drastica riduzione del gap tecnologico (e militare) con le principali potenze mondiali (Usa su tutti), tanto che il Pentagono con sempre maggiore frequenza lancia allarmi su una sempre più prossima parità militare. Nata per chiudere la triste parentesi del “secolo delle umiliazioni”, la Cina è, dopo mezzo secolo, in grado di opporsi ai rinnovati progetti di smembramento dell'imperialismo statunitense. L'”esatto contrario” avrebbe visto ben altri scenari: la liquidazione violenta della presenza comunista (una fine simile a quella dei comunisti indonesiani), lo smembramento dell'ex Celeste impero con la perdita di periferie, storicamente baluardi a protezione del centro, come Xinjiang e Tibet, oppure la ricomparsa, sotto forma diversa, di potentati regionali con a capo moderni “signori della finanza”.
Certo, il processo di apertura e riforma, nelle sue fasi di maggiore radicalità, ha portato alla crescita di diseguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, riservando ad alcune regioni costiere, piuttosto che a quelle interne, il ruolo di locomotiva dello sviluppo. Tuttavia ha permesso il raggiungimento di un risultato di portata storica (e non solo per la Cina): l'uscita dall'estrema povertà (quindi dal rischio di morte per fame) di oltre 200 milioni di persone nelle aree rurali. Nel 1950 la Cina comunista vedeva ancora parte della propria popolazione vittima di morte per inedia, con intere zone devastate da uno dei peggiori imperialismi della storia e condannate al perenne sottosviluppo. Non possiamo negare che la povertà sia ancora una realtà drammaticamente presente nella Cina popolare – e la dirigenza cinese è in prima linea nel riconoscerlo, ma il dato è quello di una sua riduzione di circa il 90%. A tutto questo va aggiunta la costante crescita percentuale a doppia cifra dei salari e il progressivo riconoscimento di diritti ai lavoratori (riduzione dell'oraria, aumento delle ferie, maggiori garanzie contro il licenziamento, sviluppo di una rete di protezione sociale universale). Misure impensabili senza uno sviluppo economico a doppia cifra. Tutt'altro che l'”esatto contrario” di quanto preannunciato! Certo, al mercato e all'iniziativa privata sono riconosciti ruoli crescenti, ma si resta nel quadro di una coerente programmazione economica da parte dello Stato (pianificazione), del controllo di quest'ultimo sul credito, sulle infrastrutture, sui settori strategici dell'economia, di un potere statale che può aumentare per legge i salari minimi (nel 2011 a Pechino crebbero per decreto del 21%), di un sistema fiscale fortemente progressivo a tutto vantaggio dei redditi più bassi, e dello sviluppo di un fiorente settore cooperativo che vede impiegata una fetta crescente della popolazione.
A questo vanno poi aggiunte le ricadute internazionali dello sviluppo economico cinese. L'ingresso a titolo paritario nella “grande famiglia di tutti i popoli del mondo” avveniva nel pieno di un processo di lotte di liberazione nazionale che vedevano impegnati popoli dell'Asia come dell'Africa contro le ex potenze coloniali e l'ingresso dell'imperialismo statunitense (guerra di Corea e difesa militare della secessione di Taiwan). Sintetizzava, quindi, la volontà dei comunisti cinesi di favorire il processo in atto e di costruire un ordine internazionale basato sul rispetto delle autonome vie di sviluppo economico-sociale. Volontà e programma politico che sarebbe stato successivamente scolpito nei Cinque principi della coesistenza pacifica (1954) in occasione della nascita del Movimento dei Paesi non allineati. A sessant'anni da quella presa di posizione – ancora oggi pietra miliare dell'impegno diplomatico cinese – ci troviamo forse di fronte all'”esatto contrario”? Chiusa la parentesi dell'esportazione della rivoluzione – che portò Pechino a sostenere anche movimenti di liberazione di dubbia ispirazione in funzione anti-sovietica – ora il successo economico cinese esercita quella che possiamo definire una “attrazione magnetica”  o un “irradiamento” per quei Paesi – ancora molti – desiderosi di uscire da un secolare sottosviluppo e di sconfiggere la povertà. In campo è posta un'alternativa tanto all'imperativo liberista quanto alla complementare “carità che uccide”, secondo la definizione della giornalista africana, collaboratrice di New York Times e Financial Times,  Dambysa Moyo. Queste sono le sue considerazioni: “Negli ultimi decenni più di un trilione di dollari nell'assistenza allo sviluppo ha davvero migliorato la vita degli africani? No. Anzi, in tutto il globo i destinatari di questi aiuti stanno peggio, molto peggio. Gli aiuti hanno contribuito a rendere i poveri più poveri e a rallentare la crescita. Al contrario, il ruolo della Cina in Africa è maggiore, più sofisticato e più efficiente di quello di qualsiasi altro paese in qualunque momento del dopoguerra. Un ruolo criticato da quanti attualmente si arrogano il diritto di decidere il destino del continente come se fosse una loro precisa responsabilità, ossia la totalità dei liberal occidentali, i quali la ritengono (spesso nel ruolo più paternalistico) una loro precisa responsabilità. Per molti africani i vantaggi sono davvero tangibili: ora ci sono strade dove non ne esistevano, e posti di lavoro dove mancavano; invece di fissare il deserto degli aiuti internazionali, possono finalmente vedere i frutti dell'impegno cinese. Quest'ultimo è chiaramente un fattore che negli ultimi anni ha permesso all'Africa di arrivare a un tasso di crescita del 5%.”[1]
Lo stesso vale per l'America Latina, visitata recentemente, in occasione dell'ultimo vertice Brics, dal presidente della Repubblica popolare cinese – e segretario del Pcc – Xi Jinping. Ai sempre più stretti legami economici e alle collaborazione in materia energetica e infrastrutturale, segue – considerazione lanciata da uno studio del Council on Hemispheric Affairs  - un sempre più diffusa disponibilità “politica” nei confronti di Pechino: “un consenso diverso sta emergendo riguardo agli investimenti cinesi nella regione. Con l'emergere della Cina sulla scena mondiale, molti Paesi dell'America Latina hanno accolto gli investimenti cinesi con le braccia aperte, perché vedono la Cina come una contrappeso all'egemonia statunitense nella regione”. Ma in gioco non c'è solo il bilanciamento dello storica e preponderante influenza Usa – una progressiva erosione che sta permettendo l'azione integrazionista condotta da governi di stampo progressista, quando non socialista – quanto la “gravitazione” della regione verso norme di politica estera tradizionalmente gradite a Pechino, su tutte la non interferenza negli affari interni in tema di diritti umani[2].
Una parte significativa del mondo guarda con interesse al socialismo cinese e la stessa presenza di Pechino ha dato a molti quanto negli ultimi decenni sembrava inverosimile: una possibilità di scelta, una alternativa al ricatto, da giocare a favore dei propri interessi. È indubbio: la presenza e l'azione della Cina popolare costituisce e offre un sempre più importante contrappeso politico-economico per tutti quei Paesi che, grazie ai flussi finanziari e ai crediti (a tassi agevolati) provenienti dal dragone orientale, possono evitare il cappio dello sfruttamento occidentale rappresentato da  strumenti operativi come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Siamo, anche in questo caso, di fronte all'”esatto contrario” di quanto preannunciato mezzo secolo prima? Pare proprio di no.

Diego Angelo Bertozzi



[1]                   Dambysa Moyo, “La carità che uccide”, Rizzoli, 2010, pag. 122
[2]     The Dragon in Uncle Sam's backyard: China in Latin America”, Council on Hemispheric Affairs, giugno 2014

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