D.A. Bertozzi, che ringrazio, è esperto di questioni cinesi e autore dei libri "La Cina da impero a nazione" (Simple) e, con A. Fais, de "Il risveglio del Drago" (All'insegna del Veltro) [DL].
Nella
sua recensione del libro “La sinistra assente” di Domenico Losurdo,
pubblicata sul Corriere della Sera del 3 novembre, il professor Canfora
riconosce i meriti di questo testo ma ne critica le posizioni relative
alla Repubblica popolare cinese. Secondo Canfora, il recente sviluppo
economico di questo paese sarebbe in contraddizione con le premesse
teoriche del socialismo cinese e della rivoluzione maoista e in questo
senso lo “sforzo ermeneutico “ di Losurdo sarebbe “mal riposto”.
Con le sue affermazioni – non nuove – Canfora si
inserisce insomma in un filone di pensiero ben consolidato – anche a sinistra – di
condanna degli sviluppi di quello che si definisce “socialismo con
caratteristiche cinesi” e che si riassume, per l'appunto, nel rigetto di un
tradimento consumatosi nel post-rivoluzione culturale e sfociato in una
restaurazione autoritaria del liberismo capitalista. La Cina, secondo una
lettura divenuta ormai senso comune, non solo non rappresenta un'alternativa
reale alla restaurazione liberista in atto, ma ne è, invece, parte attiva con
il suo bagaglio di sfruttamento, diseguaglianze raccapriccianti e pulsioni
imperialiste.
In fondo basterebbe poco per dimostrare che l'affermazione
“lo stato di cose che si è affermato in quel grande Paese, trasformatosi ormai
nell'esatto contrario di ciò che si proponeva di essere alla metà del
Novecento” concede troppo alla vulgata dominante.
Si potrebbe partire dal discorso di Mao che il 1° di
ottobre del 1949 sancì ufficialmente la nascita della Repubblica popolare
cinese: “Ci siamo uniti, con la guerra di liberazione nazionale e con la
grande rivoluzione popolare, abbiamo abbattuto gli oppressori interni ed
esterni e proclamiamo la fondazione della Repubblica popolare cinese. Da oggi
il nostro popolo entra nella grande famiglia di tutti i popoli del mondo,
amanti della pace e della libertà”.
Da allora sono passati più di cinquant'anni e, quindi,
possiamo chiederci in cosa il Partito comunista cinese abbia contribuito nella
costruzione “dell'esatto contrario” di quanto preannunciato dal suo leader più
eminente e tuttora ritenuto fonte di ispirazione e cardine ideologico. Ebbene,
tra gli scopi originari della lunga rivoluzione cinese, portata a termine dal
Pcc, c'era proprio quello della rinascita nazionale, della ri-conquista
dell'integrità territoriale e della piena sovranità. Ebbene, difficile non
vedere come proprio oggi questi obiettivi siano stati sostanzialmente raggiunti
(anche se non del tutto), con il ritorno alla madrepatria di Hong Kong e Macao,
con l'ormai concreta prospettiva di raggiungere il primato economico, con la
drastica riduzione del gap tecnologico (e militare) con le principali potenze
mondiali (Usa su tutti), tanto che il Pentagono con sempre maggiore frequenza
lancia allarmi su una sempre più prossima parità militare. Nata per chiudere la
triste parentesi del “secolo delle umiliazioni”, la Cina è, dopo mezzo secolo,
in grado di opporsi ai rinnovati progetti di smembramento dell'imperialismo
statunitense. L'”esatto contrario” avrebbe visto ben altri scenari: la liquidazione
violenta della presenza comunista (una fine simile a quella dei comunisti
indonesiani), lo smembramento dell'ex Celeste impero con la perdita di
periferie, storicamente baluardi a protezione del centro, come Xinjiang e
Tibet, oppure la ricomparsa, sotto forma diversa, di potentati regionali con a
capo moderni “signori della finanza”.
Certo, il processo di apertura e riforma, nelle sue fasi di
maggiore radicalità, ha portato alla crescita di diseguaglianze nella
distribuzione delle ricchezze, riservando ad alcune regioni costiere, piuttosto
che a quelle interne, il ruolo di locomotiva dello sviluppo. Tuttavia ha
permesso il raggiungimento di un risultato di portata storica (e non solo per
la Cina): l'uscita dall'estrema povertà (quindi dal rischio di morte per fame) di
oltre 200 milioni di persone nelle aree rurali. Nel 1950 la Cina comunista
vedeva ancora parte della propria popolazione vittima di morte per inedia, con
intere zone devastate da uno dei peggiori imperialismi della storia e
condannate al perenne sottosviluppo. Non possiamo negare che la povertà sia
ancora una realtà drammaticamente presente nella Cina popolare – e la dirigenza
cinese è in prima linea nel riconoscerlo, ma il dato è quello di una sua
riduzione di circa il 90%. A tutto questo va aggiunta la costante crescita
percentuale a doppia cifra dei salari e il progressivo riconoscimento di
diritti ai lavoratori (riduzione dell'oraria, aumento delle ferie, maggiori
garanzie contro il licenziamento, sviluppo di una rete di protezione sociale
universale). Misure impensabili senza uno sviluppo economico a doppia cifra.
Tutt'altro che l'”esatto contrario” di quanto preannunciato! Certo, al mercato
e all'iniziativa privata sono riconosciti ruoli crescenti, ma si resta nel
quadro di una coerente programmazione economica da parte dello Stato
(pianificazione), del controllo di quest'ultimo sul credito, sulle
infrastrutture, sui settori strategici dell'economia, di un potere statale che
può aumentare per legge i salari minimi (nel 2011 a Pechino crebbero per
decreto del 21%), di un sistema fiscale fortemente progressivo a tutto
vantaggio dei redditi più bassi, e dello sviluppo di un fiorente settore
cooperativo che vede impiegata una fetta crescente della popolazione.
A questo vanno poi aggiunte le ricadute internazionali
dello sviluppo economico cinese. L'ingresso a titolo paritario nella “grande
famiglia di tutti i popoli del mondo” avveniva nel pieno di un processo di
lotte di liberazione nazionale che vedevano impegnati popoli dell'Asia come dell'Africa
contro le ex potenze coloniali e l'ingresso dell'imperialismo statunitense
(guerra di Corea e difesa militare della secessione di Taiwan). Sintetizzava,
quindi, la volontà dei comunisti cinesi di favorire il processo in atto e di
costruire un ordine internazionale basato sul rispetto delle autonome vie di
sviluppo economico-sociale. Volontà e programma politico che sarebbe stato
successivamente scolpito nei Cinque principi della coesistenza pacifica (1954)
in occasione della nascita del Movimento dei Paesi non allineati. A
sessant'anni da quella presa di posizione – ancora oggi pietra miliare
dell'impegno diplomatico cinese – ci troviamo forse di fronte all'”esatto
contrario”? Chiusa la parentesi dell'esportazione della rivoluzione – che portò
Pechino a sostenere anche movimenti di liberazione di dubbia ispirazione in
funzione anti-sovietica – ora il successo economico cinese esercita quella che
possiamo definire una “attrazione magnetica”
o un “irradiamento” per quei Paesi – ancora molti – desiderosi di uscire
da un secolare sottosviluppo e di sconfiggere la povertà. In campo è posta
un'alternativa tanto all'imperativo liberista quanto alla complementare “carità
che uccide”, secondo la definizione della giornalista africana, collaboratrice
di New York Times e Financial Times,
Dambysa Moyo. Queste sono le sue considerazioni: “Negli ultimi
decenni più di un trilione di dollari nell'assistenza allo sviluppo ha davvero
migliorato la vita degli africani? No. Anzi, in tutto il globo i destinatari di
questi aiuti stanno peggio, molto peggio. Gli aiuti hanno contribuito a rendere
i poveri più poveri e a rallentare la crescita. Al contrario, il ruolo della
Cina in Africa è maggiore, più sofisticato e più efficiente di quello di
qualsiasi altro paese in qualunque momento del dopoguerra. Un ruolo criticato
da quanti attualmente si arrogano il diritto di decidere il destino del
continente come se fosse una loro precisa responsabilità, ossia la totalità dei
liberal occidentali, i quali la ritengono (spesso nel ruolo più paternalistico)
una loro precisa responsabilità. Per molti africani i vantaggi sono davvero
tangibili: ora ci sono strade dove non ne esistevano, e posti di lavoro dove
mancavano; invece di fissare il deserto degli aiuti internazionali, possono finalmente
vedere i frutti dell'impegno cinese. Quest'ultimo è chiaramente un fattore che
negli ultimi anni ha permesso all'Africa di arrivare a un tasso di crescita del
5%.”[1]
Lo stesso vale per l'America Latina, visitata recentemente,
in occasione dell'ultimo vertice Brics, dal presidente della Repubblica
popolare cinese – e segretario del Pcc – Xi Jinping. Ai sempre più stretti
legami economici e alle collaborazione in materia energetica e
infrastrutturale, segue – considerazione lanciata da uno studio del Council on
Hemispheric Affairs - un sempre più
diffusa disponibilità “politica” nei confronti di Pechino: “un consenso
diverso sta emergendo riguardo agli investimenti cinesi nella regione. Con
l'emergere della Cina sulla scena mondiale, molti Paesi dell'America Latina
hanno accolto gli investimenti cinesi con le braccia aperte, perché vedono la
Cina come una contrappeso all'egemonia statunitense nella regione”. Ma in
gioco non c'è solo il bilanciamento dello storica e preponderante influenza Usa
– una progressiva erosione che sta permettendo l'azione integrazionista
condotta da governi di stampo progressista, quando non socialista – quanto la “gravitazione”
della regione verso norme di politica estera tradizionalmente gradite a
Pechino, su tutte la non interferenza negli affari interni in tema di diritti
umani[2].
Una parte significativa del mondo guarda con interesse al
socialismo cinese e la stessa presenza di Pechino ha dato a molti quanto negli
ultimi decenni sembrava inverosimile: una possibilità di scelta, una
alternativa al ricatto, da giocare a favore dei propri interessi. È indubbio:
la presenza e l'azione della Cina popolare costituisce e offre un sempre più
importante contrappeso politico-economico per tutti quei Paesi che, grazie ai
flussi finanziari e ai crediti (a tassi agevolati) provenienti dal dragone
orientale, possono evitare il cappio dello sfruttamento occidentale
rappresentato da strumenti operativi
come la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Siamo, anche in questo caso, di fronte all'”esatto
contrario” di quanto preannunciato mezzo secolo prima? Pare proprio di no.
Diego Angelo Bertozzi
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