domenica 8 febbraio 2015

La costruzione terrorostica dell'indignazione morale nella guerra in Ucraina



E' un video che conferma l'analisi contenuta nel mio libro «La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra»  [DL]

Ecco chi erano i cecchini di Maidan: dovevano uccidere poliziotti e manifestanti per creare il caos
UN VIDEO DA DIFFONDERE PER CAPIRE COME SONO ANDATE VERAMENTE LE COSE NEL FEBBRAIO 2014 A KIEV (da marx21.it)


Provocazioni sanguinose e terrorismo dell’indignazione
Nell’Ucraina del febbraio 2014, nonostante la sua meticolosa e ostinata preparazione, l’agognato regime change tardava a verificarsi. Ed ecco che irrompevano cecchini i quali sparavano ripetutamente sulla folla (e in realtà anche sulle forze dell’ordine), provocando numerose vittime. Grazie a tale massacro, il terrorismo dell’indignazione poteva dispiegare tutti i suoi effetti, caricando ulteriormente la folla e consentendo ai rivoltosi ap- poggiati dall’Occidente di dare la spallata finale a un regime barcollante e di conquistare il potere. Nei giorni immediatamente successivi al colpo di Stato si potevano leggere sulla stampa occidentale commenti euforici che accarezzavano l’idea di una ripetizione a Mosca dell’operazione appena conclusa a Kiev; e forse era anche l’evocazione di tale scenario a spingere la Russia a una dura risposta sul piano politico e militare.
Era una reazione stimolata dalla rivolta delle regioni russofone dell’Ucraina, indignate per il regime change e allarmate per il ruolo svolto da forze violentemente russofobe e fascistoidi, ed era comunque una reazione di difesa contro un’espansione della Nato in Europa orientale che, accompagnata com’è dall’avanzata dello scudo spaziale, mira a far pesare su Mosca il terrore del primo colpo nucleare.
Ma torniamo a Kiev del febbraio 2014. Subito dopo il colpo di Stato di piazza Maidan interveniva però un elemento nuovo e inaspettato. Su Internet cominciava a circolare una telefonata, intercettata forse dai russi ma comunque di comprovata autenticità: il ministro degli Esteri della Lettonia, Urmas Paet, comunicava alla responsabile della politica estera dell’Unione europea, Catherine Ashton, che, in base alle informazioni in suo possesso, ad aprire il fuoco, al tempo stesso sui manifestanti e sulle forze dell’ordine, erano stati elementi legati all’opposizione, cioè ai protagonisti del colpo di Stato. Sarebbe stato lecito attendersi reazioni sdegnate da parte di Washington e Bruxelles, che invece si affrettavano a riconosce- re i nuovi governanti senza esigere chiarimenti o fare domande indiscrete.
D’altro canto, questa cinica Realpolitik non era priva di precedenti. Agli inizi del 1991 la Lituania, in quel momento parte integrante dell’Unione Sovietica, era stata scossa dalle manifestazioni di piazza del movimento indipendentista. Il 13 gennaio di quell’anno, a Vilnius, la capitale del paese, erano intervenuti i corpi speciali del ministero degli Interni, inviati da Gorbačëv, al fine di riprendere il controllo della stazione televisiva. La dura repressione aveva provocato quattordici morti: almeno, questa era (ed è) la versione ufficiale della «domenica di sangue di Vilnius». Si tratta, però, di una versione sancita per legge: chi la mette in dubbio può essere processato, com’è accaduto nel 2001 al presidente del «Fronte Popolare Socialista», colpevole di aver sostenuto la tesi secondo cui ad aprire il fuoco sui dimostranti erano stati in realtà non agenti russi, bensì agenti provocatori lituani, interessati a provocare il terrorismo dell’indignazione necessario per assicurarsi il sostegno dell’opinione pubblica interna e internazionale e portare alla vittoria il movimento secessionista (Hofbauer, 2011, pp. 245-7).

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