domenica 30 ottobre 2011

Intervento al 6° Congresso Nazionale del PdCI

di Domenico Losurdo


Sono lieto di prender parte a quello che potrebbe essere un rilancio e persino un nuovo inizio della presenza comunista nel nostro paese. Allorché vent’anni fa si dette vita a Rifondazione Comunista, il clima ideologico era ben diverso da quello odierno. Vent’anni fa a Washington gli ideologi più enfatici proclamavano che la storia era finita: in ogni caso il capitalismo aveva trionfato e i comunisti avevano avuto il torto di stare dalla parte sbagliata, anzi dalla parte criminale della storia. Oggi sappiamo che queste certezze e queste mitologie avevano fatto breccia anche nel gruppo dirigente di Rifondazione Comunista. Si è così assistito allo spettacolo grottesco per cui un leader di primissimo piano ha dispiegato tutto il suo talento oratorio per dimostrare che i comunisti avevano sempre avuto torto e avevano sempre provocato catastrofi in Russia come in Italia; e continuavano ad aver torto in Cina come in Vietnam e, in ultima analisi nella stessa Cuba. Ben si comprende l’entusiasmo della stampa borghese per questo profeta, per questo dono venuto dal Cielo. Ma il risultato finale lo conosciamo tutti.

E’ stato un disastro: per la prima volta nella storia della nostra repubblica i comunisti sono senza rappresentanza parlamentare. C’è di peggio.  Privare le classi lavoratrici della loro storia significa privarle anche della loro capacità di orientarsi nel presente. Le classi lavoratrici stentano oggi a organizzare un’efficace resistenza in un momento in cui la Repubblica fondata sul lavoro si trasforma nella repubblica fondata sul licenziamento arbitrario, sul privilegio della ricchezza, sulla corruzione, sulla venalità delle cariche pubbliche. E, purtroppo pressoché inesistente è stata sinora la resistenza opposta al processo in base al quale la Repubblica che ripudia la guerra si trasforma nella repubblica che partecipa alle più infami guerre coloniali. E’ avendo questo disastro alle spalle che oggi ci impegniamo nel rilancio del progetto comunista.

Di ciò c’è un bisogno urgente. E non è un bisogno avvertito solo dai comunisti. Vediamo cosa avviene oggi nel paese che poco più di 20 anni fa aveva visto la proclamazione della fine della storia. Le strade sono piene di manifestanti che gridano la loro indignazione contro Wall Street. I cartelli non si limitano a denunciare le conseguenze della crisi, e cioè la disoccupazione, la precarietà, la fame, la crescente polarizzazione di ricchezza e povertà. Quei cartelli vanno oltre: denunciano il peso decisivo della ricchezza nella vita politica statunitense, di fatto smascherano il mito della democrazia americana. A dettar legge nella repubblica nord-americana è in realtà la grande finanza, è Wall Street: questo gridano i manifestanti. E alcuni cartelli vanno oltre, urlano la loro rabbia non solo contro Wall Street ma anche contro War Street. E cioè, il quartiere dell’alta finanza viene identificato come il quartiere al tempo stesso della guerra e dello scatenamento della guerra. Emerge o comincia a emergere la consapevolezza del rapporto tra capitalismo e imperialismo.

Sì, il capitalismo è gravido al tempo stesso di devastanti crisi economiche e di guerre infami. Ancora una volta le masse popolari e i comunisti si trovano a dover fronteggiare la crisi del capitalismo e la sua politica di guerra. Per ragioni di tempo mi soffermo solo su questo secondo punto. La fine dell’impegno della Nato in Libia non è la fine della guerra in Medio Oriente. Sono già in preparazione le guerre contro la Siria e contro l’Iran. Anzi, queste guerre sono di fatto già iniziate. La potenza di fuoco multimediale con cui l’Occidente cerca di isolare, criminalizzare, strangolare e destabilizzare questi due paesi è pronta a trasformarsi in una potenza di fuoco vera e propria, a base di missili e di bombe. E noi comunisti dobbiamo far sentire sin d’ora la nostra voce. Se attendessimo lo scoppio delle ostilità non saremmo all’altezza né del movimento comunista né del movimento antimilitarista, non saremmo eredi né di Lenin né di Liebknecht. Sin d’ora dobbiamo organizzare manifestazioni contro la guerra e i preparativi di guerra; sin d’ora dobbiamo chiarire che la posizione nei confronti della guerra è un criterio essenziale per definire il discrimine tra potenziali alleati e avversari irriducibili.

Per quanto riguarda la Cina, Washington sì trasferisce in Asia il grosso del suo dispositivo militare, ma in modo esplicito agita per ora solo la minaccia della guerra commerciale. Ma, com’è noto, le guerre commerciali si sa come iniziano ma non come finiscono. Su questo punto farebbero bene a riflettere coloro che anche a sinistra si accodano alla campagna anticinese: essi volgono così alle spalle alla lotta per la pace.

E’ un atteggiamento tanto più sconcertante per il fatto che la Cina, un quinto dell’umanità, è stata protagonista di una delle più grandi rivoluzioni della storia universale. Ovviamente, occorre tener ben presenti i problemi, le sfide, le contraddizioni anche gravi che caratterizzano il grande paese asiatico. Ma intanto chiariamo il quadro storico. Agli inizi del Novecento la Cina era parte integrante del mondo coloniale che ha potuto spezzare le sue catene grazie alla gigantesca ondata della rivoluzione anticolonialista scaturita dall’ottobre 1917. Vediamo come si è ulteriormente sviluppata la storia. In Italia, in Germania, in Giappone, il fascismo e il nazismo sono stati il tentativo di rivitalizzare il colonialismo. In particolare la guerra scatenata dall’imperialismo hitleriano e dall’imperialismo giapponese rispettivamente contro l’Unione sovietica e contro la Cina sono state le più grandi guerre coloniali della storia. E dunque Stalingrado nell’Unione sovietica e la Lunga Marcia e la guerra di resistenza anti-giapponese in Cina sono state due grandiose lotte di classe, quelle che hanno impedito all’imperialismo più barbaro di realizzare una divisione del lavoro fondata sulla riduzione di grandi popoli a una massa di schiavi o semi-schiavi al servizio delle presunte razze dei signori.

Ma cosa succede ai giorni nostri? Come ho già detto, gli Usa stanno trasferendo in Asia il grosso del loro dispositivo militare. Sull’agenzia Reuter di ieri leggo che una delle accuse rivolte ai dirigenti di Pechino è quella di promuovere o di imporre il trasferimento di tecnologia dall’Occidente in Cina. Gli Usa avrebbero voluto mantenere il monopolio della tecnologia anche al fine di continuare a esercitare un dominio neo-coloniale; la lotta per l’indipendenza si manifesta anche sul piano economico. E dunque: rivoluzionaria non è soltanto la lunga lotta con cui il popolo cinese ha posto fine al secolo delle umiliazioni e ha fondato la repubblica popolare; non è soltanto l’edificazione economica e sociale con cui il Partito comunista cinese ha liberato dalla fame centinaia di milioni di uomini; anche la lotta per rompere il monopolio imperialista della tecnologia è una lotta rivoluzionaria. C’è l’ha insegnato Marx. Sì, la lotta per modificare la divisione internazionale del lavoro imposta dal capitalismo e dall’imperialismo è essa stessa una lotta di classe. Dal punto di vista di Marx è una lotta di emancipazione già la lotta per superare nell’ambito della famiglia la divisione patriarcale del lavoro; sarebbe ben strano se non fosse una lotta di emancipazione la lotta per porre fine a livello internazionale alla divisione del lavoro imposta dal capitalismo e dall’imperialismo, la lotta per liquidare definitivamente quel monopolio occidentale della tecnologia che non è un dato naturale ma il risultato di secoli di dominio e di oppressione!

Concludo. Ai giorni nostri vediamo il paese-guida del capitalismo immerso sì in una profonda crisi economica e sempre più screditato a livello internazionale; al tempo stesso esso continua ad aggrapparsi alla pretesa di essere il popolo eletto da Dio e ad accrescere febbrilmente il suo già mostruoso apparato di guerra e a estendere la sua rete di basi militari in ogni angolo del mondo. Tutto ciò non promette nulla di buono. E’ la compresenza di prospettive promettenti e di minacce terribili a rendere urgente la costruzione e il rafforzamento dei partiti comunisti. Io spero caldamente che il partito che oggi ricostruiamo sarà all’altezza dei suoi compiti.
Rimini, 29 ottobre 2011
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Intervention au 6° congrès National du PdCI (Partito dei Comunisti italiani)
Traduit de l’italien par Marie-Ange Patrizio

Je suis heureux de participer à ce qui pourrait être une relance voire un nouveau début de la présence communiste dans notre pays. Quand, il y a vingt ans fut créé Rifondazione Comunista, le climat idéologique était bien différent de celui d’aujourd’hui. Il y a vingt ans à Washington les idéologues les plus emphatiques proclamaient que l’histoire était finie : en tous cas le capitalisme avait triomphé et les communistes avaient eu le tort de se tenir du mauvais côté, et même du côté criminel de l’histoire. Nous savons aujourd’hui que ces certitudes et ses mythologies avaient fait brèche même dans le groupe dirigeant de Rifondazione Comunista. On a ainsi assisté au spectacle grotesque dans lequel un leader de tout premier plan[i] a déployé tout son talent oratoire pour démontrer que les communistes avaient toujours eu tort et avaient toujours provoqué des catastrophes en Russie comme en Italie ; et continuaient à avoir tort en Chine comme au Vietnam et, en dernière analyse même à Cuba ; on comprend bien l’enthousiasme de la presse bourgeoise pour ce prophète, pour ce don venu du Ciel. Mais nous connaissons tous le résultat final.

  Ça a été un désastre : pour la première fois dans l’histoire de notre république les communistes sont sans représentation au parlement. Pire. Priver les classes laborieuses de leur histoire signifiait les priver aussi de leur capacité à s’orienter dans le présent. Les classes laborieuses peinent aujourd’hui à organiser une résistance efficace à un moment où la République fondée sur le travail[ii] se transforme en république fondée sur le licenciement arbitraire, sur le privilège de la richesse, sur la corruption, sur la vénalité des charges publiques. Et, malheureusement, quasiment inexistante a été jusqu’ici la résistance opposée au processus par lequel la République qui répudie la guerre[iii] se transforme en république qui participe aux plus infâmes guerres coloniales. C’est avec ce désastre derrière nous que nous nous engageons aujourd’hui dans la relance du projet communiste.

   De cela il y a un besoin urgent Et ce n’est pas un besoin éprouvé seulement par les communistes. Nous voyons ce qu’il arrive aujourd’hui dans le pays qui, il y a à peine plus de vingt ans, avait vu la proclamation de la fin de l’histoire. Les rues sont pleines de manifestants qui crient leur indignation contre Wall Street. Les pancartes ne se bornent pas à dénoncer les conséquences de la crise, c’est-à-dire le chômage, la précarité, la faim, la polarisation croissante de richesse et pauvreté. Ces pancartes vont au-delà : elles dénoncent le poids décisif de la richesse dans la vie politique étasunienne, et démasquent de fait le mythe de la démocratie américaine. Ce qui dicte la loi dans la république nord-américaine est en réalité la grande finance, c’est Wall Street ; voilà ce que crient les manifestants. Et certaines pancartes vont au-delà, et hurlent la rage non seulement contre Wall Street mais aussi contre War Street. C’est-à-dire que le quartier de la haute finance est identifié comme étant en même temps le quartier de la guerre et du déchaînement de la guerre. Emerge ainsi ou commence à émerger la conscience du rapport entre capitalisme et impérialisme.

  Oui, le capitalisme porte en même temps des crises économiques dévastatrices et des guerres infâmes. Une fois de plus les masses populaires et les communistes se trouvent en devoir d’affronter la crise du capitalisme et sa politique de guerre. Pour des raisons de temps je ne m’arrêterai que sur ce deuxième point. La fin de l’engagement de l’OTAN en Libye n’est pas la fin de la guerre au Moyen-Orient. Les guerres contre la Syrie et l’Iran sont déjà en préparation. Ces guerres, même, ont de fait déjà commencé. La puissance de feu multimédiatique avec laquelle l’Occident essaie d’isoler, de criminaliser, d’étrangler et de déstabiliser ces deux pays est prête à se transformer en une puissance de feu véritable, à base de missiles et de bombes. Et nous communistes devons dès à présent faire entendre notre voix. Si nous attendions le déclenchement des hostilités nous ne serions à la hauteur ni du mouvement communiste ni du mouvement antimilitariste, et nous ne serions pas les héritiers de Lénine et de Liebknecht. Nous devons dès à présent organiser des manifestations contre la guerre et contre les préparatifs de guerre ; dès à présent nous devons clarifier le fait que la position à l’égard de la guerre est un critère essentiel pour définir la discrimination entre alliés potentiels et adversaires irréductibles.

  Pour ce qui concerne la Chine, Washington, oui, transfère en Asie le gros de son dispositif militaire, mais n’agite pour le moment de façon explicite que la menace de la guerre commerciale. Mais, comme il est notoire, on sait comment commencent les guerres commerciales mais on ne sait pas comment elles finissent. Ils feraient bien de réfléchir sur ce point ceux qui, même à gauche, se mettent en rang pour la campagne anti-chinoise : ils tournent ainsi le dos à la lutte pour la paix.

   C’est une attitude d’autant plus déconcertante que la Chine a été protagoniste d’une des plus grandes révolutions de l’histoire universelle. Evidemment, il convient de garder à l’esprit les problèmes, les défis, les contradictions même graves qui caractérisent le grand pays asiatique. Mais clarifions d’abord le cadre historique. Au début du 20ème siècle la Chine était une partie intégrante de ce monde colonial qui a pu briser ses chaînes grâce à la gigantesque vague de la révolution anticolonialiste déclenchée en octobre 1917. Voyons comment l’histoire s’est ensuite développée. En Italie, en Allemagne, au Japon, le fascisme et le nazisme ont été la tentative de revitaliser le colonialisme. En particulier,  la guerre déchaînée par l’impérialisme hitlérien et par l’impérialisme japonais respectivement contre l’Union soviétique et contre la Chine ont été les plus grandes guerres coloniales de l’histoire. Et donc Stalingrad en Union Soviétique et la Longue Marche et la guerre de résistance anti-japonaise en Chine ont été deux grandioses luttes de classe, celles qui ont empêché l’impérialisme le plus barbare de réaliser une division du travail fondée sur le réduction de grands peuples à une masse d’esclaves ou semi-esclaves au service de la présumée race des seigneurs.

  Mais qu’arrive-t-il aujourd’hui ? Comme je l’ai déjà dit, les USA sont en train de transférer le gros de leur dispositif militaire en Asie. Je lis sur des dépêches d’hier (vendredi 28 octobre 2011) de l’agence Reuters qu’une des accusations adressées aux dirigeants de Pékin est celle de promouvoir ou de vouloir imposer le transfert de technologie de l’Occident en Chine. Les USA auraient voulu garder le monopole de la technologie pour continuer à exercer aussi une domination néo-coloniale ; la lutte pour l’indépendance se manifeste aussi sur le plan économique. Et donc : révolutionnaire n’est pas seulement la longue lutte par laquelle le peuple chinois a mis fin au siècle des humiliations et a fondé la république populaire ; ni seulement l’édification économique et sociale par laquelle le Parti communiste chinois a libéré de la faim des centaines de millions d’hommes et de femmes ; même la lutte pour casser le monopole impérialiste de la technologie est une lutte révolutionnaire. Marx nous l’a enseigné. Oui, la lutte pour modifier la division internationale du travail imposée par le capitalisme et par l’impérialisme est elle-même une lutte de classe. Du point de vue de Marx, la lutte pour dépasser dans le cadre de la famille la division patriarcale du travail est déjà une lutte d’émancipation ; il serait bien étrange que ne fut pas une lutte d’émancipation la lutte pour mettre fin au niveau international à la division du travail imposée par le capitalisme et par l’impérialisme, la lutte pour liquider définitivement ce monopole occidental de la technologie qui n’est pas une donnée naturelle mais le résultat de siècles de domination et d’oppression !

   Je conclus. Nous voyons de nos jours le pays-guide du capitalisme plongé dans une profonde crise économique et de plus en plus discrédité au niveau international ; en même temps, il continue à s’accrocher à la prétention d’être le peuple élu par Dieu et à accroître fébrilement son appareil de guerre déjà monstrueux, et à étendre son réseau de bases militaires dans tous les coins du monde. Tout cela ne promet rien de bon. C’est la concomitance de perspectives prometteuses et de menaces terribles qui rend urgents la construction et le renforcement des partis communistes. J’espère vivement que le parti que nous construisons aujourd’hui sera à la hauteur de ses devoirs.



[i] Fausto Bertinotti, longtemps secrétaire général du Partito della Rifondazione Comunista (NdT)
[ii] Article 1 de la Constitution italienne : «L’Italie est une république fondée sur le travail »
[iii] Article 11 de la Constitution italienne : « L’Italie répudie la guerre comme instrument d’offense à la liberté des autres peuples et comme moyen de résolution des controverses internationales »

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Intervención en el 6º Congreso Nacional del PdCI (Partido de los Comunistas Italianos)
Traducción: Juan Vivanco [Ringrazio il traduttore per il suo lavoro, DL]

Estoy encantado de participar en lo que podría ser un relanzamiento e incluso un nuevo comienzo de la presencia comunista en nuestro país. Cuando, hace veinte años, se creó Rifondazione Comunista, el clima ideológico era muy distinto del actual. Hace veinte años, en Washington, los ideólogos más enfáticos proclamaban que la historia había terminado: en cualquier caso el capitalismo había triunfado y los comunistas eran culpables de estar en el lado equivocado, es más, en el lado criminal de la historia. Hoy sabemos que estas certezas y estas mitologías habían hecho mella también en el grupo dirigente de Rifondazione Comunista. Fue así como asistimos al espectáculo grotesco de un dirigente de primerísima línea desplegando todo su talento oratorio para demostrar que los comunistas siempre habían estado equivocados y siempre habían provocado catástrofes, tanto en Rusia como en Italia; y seguían estando equivocados en China, en Vietnam y, en última instancia, también en Cuba. Es comprensible el entusiasmo de la prensa burguesa por este profeta, por este regalo caído del cielo. Pero el resultado final ya lo conocemos todos.
 Fue un desastre: por primera vez en la historia de nuestra república, los comunistas carecen de representación parlamentaria. Pero eso no es lo peor. Privar a las clases trabajadoras de su historia significa privarlas también de su capacidad de orientarse en el presente. Las clases trabajadoras tienen grandes dificultades para organizar una resistencia en un momento en que la República basada en el trabajo se transforma en la república basada en el despido arbitrario, el privilegio de la riqueza, la corrupción y la venalidad de los cargos públicos. Lamentablemente, casi no ha habido resistencia al proceso merced al cual la República que repudia la guerra se transforma en la república que participa en las más infames guerras coloniales. Con semejante desastre a la espalda emprendemos hoy el relanzamiento del proyecto comunista.
Es una necesidad urgente, pero no es una necesidad sentida sólo por los comunistas. Veamos lo que sucede en el país que hace poco más de 20 años había asistido a la proclamación del fin de la historia. Las calles están llenas de manifestantes que gritan su indignación contra Wall Street. Los carteles no se limitan a denunciar las consecuencias de la crisis, es decir, el desempleo, la precariedad, el hambre y la creciente distancia entre ricos y pobres. Esos carteles van más allá: denuncian el peso decisivo de la riqueza en la vida política estadounidense, con lo que desenmascaran el mito de la democracia norteamericana. En la república estadounidense quien dicta la ley, en realidad, es la gran banca, es Wall Street, gritan los manifestantes. Y algunos carteles van aún más lejos, gritan su rabia no sólo contra Wall Street sino también contra WarStreet. Es decir, identifican el barrio de las finanzas con el barrio de la guerra y del desencadenamiento de la guerra. Surge o empieza a surgir la conciencia de la relación entre capitalismo e imperialismo.
Sí, el capitalismo está preñado al mismo tiempo de crisis económicas devastadoras y guerras infames. Una vez más las masas populares y los comunistas tienen que hacer frente a la crisis del capitalismo y su política de guerra. Por motivos de tiempo sólo me detendré en este segundo aspecto. El fin de la intervención de la OTAN en Libia no es el fin de la guerra en Oriente Próximo. Ya se están tramando otras guerras contra Siria y contra Irán. En realidad estas guerras han empezado ya. La potencia de fuego mediática con que Occidente trata de aislar, criminalizar, estrangular y desestabilizar estos dos países está lista para transformarse en una potencia de fuego real, con misiles y bombas. Nosotros, los comunistas, debemos lograr que se oiga desde ahora nuestra voz. Si esperásemos a la ruptura de las hostilidades no estaríamos a la altura del movimiento comunista ni del movimiento antimilitarista, no seríamos herederos de Lenin ni de Liebknecht. Desde ahora debemos organizar manifestaciones contra la guerra y los preparativos de guerra; desde ahora debemos explicar que la posición ante la guerra es un criterio esencial para distinguir entre los aliados potenciales y los adversarios irreductibles.
En lo que respecta a China, Washington traslada a Asia el grueso de su dispositivo militar, aunque de un modo explícito, por ahora, sólo agite la amenaza de una guerra comercial. Pero es bien conocido que las guerras comerciales, una vez desencadenadas, no se sabe cómo terminan. Harían bien en reflexionar sobre esto quienes, desde la izquierda, se suman a la campaña antichina, pues así están dando la espalda a la lucha por la paz.
Es una actitud tanto más desconcertante cuanto que en China, un quinto de la humanidad, tuvo lugar una de las mayores revoluciones de la historia universal. Lo cual no quita para que tengamos en cuenta los problemas, los retos y las contradicciones, incluso graves, que caracterizan al gran país asiático. Pero conviene aclarar el marco histórico. A principios del siglo XX China formaba parte del mundo colonizado y pudo romper sus cadenas gracias a la gigantesca ola de la revolución anticolonialista alentada por octubre de 1917. Veamos cómo se desarrolló después la historia. En Italia, Alemania y Japón el fascismo y el nazismo fueron un intento de revitalizar el colonialismo. En particular, la guerra desatada por el imperialismo hitleriano y el japonés, respectivamente, contra la Unión Soviética y China, fueron las mayores guerras coloniales de la historia. Por lo tanto, Stalingrado en la Unión Soviética y la Larga Marcha y la guerra de resistencia antijaponesa en China fueron dos grandiosas luchas de clase, que impidieron que el imperialismo más bárbaro impusiera una división del trabajo basada en la reducción de grandes pueblos a una masa de esclavos o semiesclavos al servicio de las presuntas razas de los señores.
Pero ¿qué sucede en nuestros días? Como ya he dicho, Estados Unidos está trasladando a Asia el grueso de su dispositivo militar. En la agencia Reuter de ayer [29 de octubre] leo que una de las acusaciones contra los dirigentes de Pekín es que promueven o imponen la transferencia de tecnología occidental a China. EE. UU. querría mantener el monopolio de la tecnología para seguir ejerciendo un dominio neocolonial; la lucha por la independencia también se pone de manifiesto en el plano económico. De modo que no sólo fue revolucionaria la larga lucha con que el pueblo chino puso fin al siglo de las humillaciones y fundó la República Popular; no sólo fue revolucionaria la edificación económica y social con que el Partido Comunista Chino libró del hambre a cientos de millones de seres humanos; también la lucha por romper el monopolio imperialista de la tecnología es una lucha revolucionaria. Nos lo enseñó Marx. Sí, la lucha por modificar la división internacional del trabajo impuesta por el capitalismo y el imperialismo es en sí una lucha de clases. Desde el punto de vista de Marxes ya una lucha de emancipación la que se entabla en el ámbito familiar para acabar con la división patriarcal del trabajo; ¡sería muy extraño que no fuera una lucha de emancipación la que se entabla para acabar, a escala internacional, con la división del trabajo impuesta por el capitalismo y el imperialismo, la lucha para liquidar definitivamente el monopolio occidental de la tecnología, que no es un hecho natural sino el resultado de siglos de dominio y opresión!
Concluyo: en nuestros días vemos al país-guía del capitalismo sumido en una profunda crisis económica y cada vez más desacreditado a escala internacional; al mismo tiempo sigue aferrándose a la pretensión de ser el pueblo elegido por Dios, sigue aumentando febrilmente su ya monstruoso aparato de guerra y extendiendo su red de bases militares por todos los rincones del planeta. Eso no promete nada bueno. La presencia simultánea de perspectivas alentadoras y amenazas terribles nos urge a construir y fortalecer los partidos comunistas. Tengo fundadas esperanzas en que el partido que hoy reconstruimos esté a la altura de sus tareas.

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INTERVENçãO NO 6º CONGRESSO NACIONAL DO PDCI (PARTITO DEI COMUNISTI ITALIANI)

Fico feliz por participar deste evento que poderia ser um relançamento ou mesmo um novo arranque da presença comunista no nosso país. Quando, há vinte anos, foi criada a Rifondazione Comunista, o clima ideológico era bem diferente daquele de hoje. Há vinte anos, em Washington, os ideólogos mais enfáticos proclamavam que a história estava acabada: em todo caso o capitalismo havia triunfado e os comunistas haviam cometido o erro de ficarem do lado mau, e mesmo criminoso, da história. Sabemos hoje que estas certezas e suas mitologias haviam penetrado mesmo no grupo dirigente da Rifondazione Comunista. Assiste-se assim ao espectáculo grotesco no qual um líder de primeiro plano [1] aplicou todo o seu talento retórico para demonstrar que os comunistas haviam errado sempre, sempre provocaram catástrofes tanto na Rússia como na Itália; e continuavam a errar tanto na China como no Vietname e, em última análise, mesmo em Cuba. Compreende-se bem o entusiasmo da imprensa burguesa para com este profeta, para esta prenda vinda do Céu. Mas todos nós conhecemos o resultado final.

Foi um desastre: pela primeira vez na história da nossa república os comunistas estão sem representação no parlamento. Pior. Privar as classes laboriosas da sua história significava privá-las também da sua capacidade para orientar-se no presente. As classes laboriosas penam hoje para organizar uma resistência eficaz num momento onde a República fundada sobre o trabalho [2] se transforma em república fundada sobre o despedimento arbitrário, sobre o privilégio da riqueza, sobre a corrupção, sobre a venalidade dos cargos públicos. E, infelizmente, até aqui foi quase inexistente a resistência oposta ao processo pelo qual a República que repudia a guerra [3] se transforma em república que participa nas mais infames guerras coloniais. É com este desastre atrás de nós que nós nos empenhamos hoje no relançamento do projecto comunista.

Disto decorre uma necessidade urgente. E não se trata de uma necessidade experimentada só pelos comunistas. Vemos o que acontece no país que, há pouco mais de vinte anos, vira a proclamação do fim da história. As ruas estão cheias de manifestantes que gritam a sua indignação contra a Wall Street. Os cartazes não se limitam a denunciar as consequências da crise, ou seja, o desemprego, a precariedade, a fome, a polarização crescente de riqueza e pobreza. Estes cartazes vão mais além: eles denunciam o peso decisivo da riqueza na vida política estado-unidense e desmascaram de facto o mito da democracia americana. O que dita a lei na república norte-americana é na realidade a grande finança, é a Wall Street; eis o que gritam os manifestantes. E certos cartazes vão mais além e bradam a cólera não só contra a Wall Street mas também contra a War Street. Isto quer dizer que o quarteirão da alta finança é identificado como sendo ao mesmo tempo o quarteirão da guerra e do desencadeamento da guerra. Emerge assim, ou começa a emergir, a consciência da relação entre capitalismo e imperialismo.

Sim, o capitalismo traz ao mesmo tempo crises económicas devastadoras e guerra infames. Mais uma vez as massas populares e os comunistas encontram-se diante do dever de enfrentar a crise do capitalismo e sua política de guerra. Por razões de tempo não me deterei senão sobre este segundo ponto. O fim da intervenção da NATO na Líbia não é o fim da guerra no Médio Oriente. As guerras contra a Síria e o Irão já estão em preparativos. Estas guerras, mesmo, já começaram. O poder de fogo multimediático com a qual o Ocidente tenta isolar, criminalizar, estrangular e desestabilizar estes dois países está prestes a transformar-se num poder de fogo verdadeiro, com base em mísseis e bombas. E nós comunistas devemos desde já fazer ouvir a nossa voz. Se esperássemos o desencadeamento das hostilidades não estaríamos à altura nem do movimento comunista nem do movimento antimilitarista, e não seríamos os herdeiros de Lenine e de Liebknecht. Devemos desde o presente organizar manifestações contra a guerra e contra os preparativos de guerra; desde o presente devemos clarificar o facto de que a posição em relação à guerra é um critério essencial para definir a discriminação entre aliados potenciais e adversários irredutíveis.

No que se refere à China, Washington, sim, transfere para a Ásia o grosso do seu dispositivo militar, mas por enquanto não agita de modo explícito senão a ameaça da guerra comercial. Mas, como é notório, sabe-se como as guerras comerciais começam mas não se sabe como acabam. Fariam bem em reflectir sobre este ponto aqueles que, mesmo na esquerda, se alinham na campanha anti chinesa: eles viram assim as costas à luta pela paz.

Trata-se de uma atitude tanto mais desconcertante pelo facto de a China ter sido protagonista de uma das maiores revoluções da história universal. Evidentemente, convém manter em mente os problemas, os desafios, as contradições mesmo graves que caracterizam o grande país asiático. Mas clarifiquemos primeiro o quadro histórico. No princípio do século XX a China era uma parte integrante deste mundo colonial que pôde romper suas cadeias graças à gigantesca vaga da revolução anticolonialista desencadeada em Outubro de 1917. Vemos como a história se desenvolveu a seguir. Na Itália, na Alemanha, no Japão, o fascismo e o nazismo foram a tentativa de revitalizar o neocolonialismo. Em particular, a guerra desencadeada pelo imperialismo hitleriano e pelo imperialismo japonês respectivamente contra a União Soviética e contra a China foram as maiores guerras coloniais da história. E portanto Stalingrado na União Soviética e a Longa Marcha e a guerra de resistência anti japonesa na China foram duas grandiosas lutas de classe, aquelas que impediram o imperialismo mais bárbaro de realizar uma divisão do trabalho fundamentado na redução de grandes povos a uma massa de escravos ou semi-escravos ao serviço da suposta raça dos senhores.

Mas o que é que se passa hoje? Como já disse, os EUA estão em vias de transferir o grosso do seu dispositivo militar para a Ásia. Leio em telegramas de ontem (28/Outubro/2011) da agência Reuters que uma das acusações aos dirigentes de Pequim é a de promover ou querer impor a transferência de tecnologia do Ocidente para a China. Os EUA teriam desejado manter o monopólio da tecnologia para poderem continuar a exercer uma dominação neocolonial; a luta pela independência manifesta-se também no plano económico. Portanto, revolucionária não é só a longa luta pela qual o povo chinês pôs fim a um século de humilhações e fundou a república popular; nem apenas a edificação económica e social pela qual o Partido Comunista Chinês libertou da fome centenas de milhões de homens e mulheres; mesmo a luta para romper o monopólio imperialista da tecnologia é uma luta revolucionária. Marx nos ensinou. Sim, a luta para modificar a divisão internacional do trabalho imposta pelo capitalismo e pelo imperialismo é em si mesma uma luta de classe. Do ponto de vista de Marx, a luta para ultrapassar no quadro da família a divisão patriarcal do trabalho já é uma luta de emancipação; seria bem estranho que não fosse uma luta de emancipação a luta para por fim ao nível internacional à divisão do trabalho imposta pelo capitalismo e pelo imperialismo, a luta para liquidar definitivamente este monopólio ocidental da tecnologia que não é um dado natural mas o resultado de séculos de dominação e de opressão!

Concluo. Vemos nos nossos dias o país-guia do capitalismo mergulhado numa profunda crise económica e cada vez mais desacreditado ao nível internacional. Ao mesmo tempo, ele continua a agarrar-se à pretensão de ser o povo eleito por Deus e a aumentar febrilmente seu aparelho de guerra já monstruoso, assim como a estender sua rede de bases militares por todos os cantos do mundo. Tudo isso não promete nada de bom. É a concomitância de perspectivas prometedoras e de ameaças terríveis que torna urgente a construção e o reforço dos partidos comunistas. Espero vivamente que o partido que hoje construímos venha a estar à altura dos seus deveres.
Rimini, 29/Outubro/2011

(1) Fausto Bertinotti, durante muito tempo secretário-geral do Partito della Rifondazione Comunista (NdT)
(2) Artigo 1 da Constituição italiana: "A Itália é uma república fundamentada no trabalho"
(3) Artigo 11 da Constituição italiana: "A Itália repudia a guerra como instrumento de ofensa à liberdade dos outros povos e como meio de resolução das controvérsias internacionais".

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2 commenti:

Anonimo ha detto...

L'auspicio del prof. Losurdo è sacrosanto, ma purtroppo, per come la vedo io, un Partito Comunista in Italia all'altezza dei suoi compiti è ancora molto al di là da venire. La prospettiva politica, per ora, è il piccolo cabotaggio elettorale e l'alleanza con il partito dei bombardieri, condita da tanta retorica ideologica ma solo come specchietto per le allodole. Il tutto per portare a casa una decina (se va bene) di deputati che, ci assicurano, non "romperanno le scatole" per 5 anni. Che tristezza...

A. Peruzzi

Anonimo ha detto...

Sono otto anni che si dichiara imminente la guerra contro l'Iran, e sono otto anni che varie personalità e movimenti invitano a mobilitarsi contro l'imminente conflitto. Qui addirittura si dice (con non poca audacia) che la guerra contro Siria e Iran "e' già in atto". Ebbene, parole come queste fanno si che da anni legioni di persone in (spero) buona fede si agitano per una guerra inesistente, trascurando in maniera irresponsabile le guerre reali: Afghanistan, Iraq, Libia... Paesi che, peraltro, vengono aggrediti dagli usa con il contributo piu o meno determinante di Teheran. Che coincidenza.
Professore, la invito a studiare attentamente la storia del Medio Oriente contemporaneo. Se non ha tempo, si limiti a ripassare i principali avvenimenti degli ultimi dieci anni in quell'area. Vedrà che la guerra contro Siria e Iran da parte dell'imperialismo se la leverà dalla testa, si fidi.
Claudio Martini
P.s.
Lei esclama: "sin d’ora dobbiamo chiarire che la posizione nei confronti della guerra è un criterio essenziale per definire il discrimine tra potenziali alleati e avversari irriducibili."
Bene, si rende conto che lei ha pronunciato queste parole al congresso di un partito che si alleerà inevitabilmente con il PD, costi quel che costi?