All’immediata vigilia ormai della pubblicazione del mio libro, conviene porre termine al «concorso» scherzoso che era stato indetto a proposito della partenità di due citazioni.
La prima – come diversi amici hanno indovinato – è ripresa da Gandhi, il quale è ben lungi dall’essere il santone votato ad una non-violenza incondizionata, rappresentato dall’agiografia oggi imperante. I lettori del libro vedranno che in certe occasioni Gandhi ha proceduto a una celebrazione della guerra e della vita militare in termini ancora più enfatici.
La seconda citazione – ammetto che era molto difficile indovinarlo – è ripresa da Karl Liebknecht, il campione della causa dell’antimilitarismo (e del socialismo) tra Otto e Novecento. Sottoposto a processo per alto tradimento e accusato di istigare la sedizione e la ribellione violenta nell’esercito tedesco, Liebknecht aveva controbattuto:
Io dovrei stimolare la violenza? Io che con tutte le mie forze mi impegno a sviluppare al massimo l’agitazione pianificata contro la guerra e ogni violenza? […] La violenza viene difesa mediante questa accusa contro i tentativi di eliminazione della violenza. Così stanno in realtà le cose.
Io voglio la pace, il pubblico ministero vuole invece la violenza.
Scoppiata la prima guerra mondiale e chiamato al fronte, Liebknecht si atteggia nel modo che abbiamo già visto. Piuttosto che inchinarsi al «fato» della guerra (l’espressione è del riformista Filippo Turati), Liebknecht finisce col salutare con entusiasmo la rivoluzione d’ottobre e col fondare il Partito comunista tedesco, chiamato a emulare in Germania l’impresa dei bolscevichi russi: sarà poi assassinato assieme a Rosa Luxemburg.
Oggi che si infittiscono le guerre e le minacce di guerra messe in atto dall’imperialismo, il mio libro («La non-violenza. Una storia fuori dal mito») vuol anche essere una rivendicazione dell’attualità del movimento antimilitarista.
Domenico Losurdo