venerdì 14 dicembre 2012

Psicopatologia e demonologia. La lettura delle grandi crisi storiche dalla Restaurazione ai giorni nostri


di Domenico Losurdo

Questo saggio è stato pubblicato in «Belfagor. Rassegna di varia umanità», diretta da Carlo Ferdinando Russo, Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze, marzo 2012, pp. 151-172. Come è noto, Belfagor ha chiuso i battenti. Con questo omaggio ringrazio l'amico Carlo Ferdinando Russo e tutta la redazione per l'ospitalità che spesso mi è stata concessa [DL].
  

1. Dalla Restaurazione a Hannah Arendt

Come spiegare la grande crisi storica che inizia con la rivoluzione francese e che, a distanza di un quarto di secolo, si conclude (provvisoriamente) con il ritorno dei Borboni? Friedrich Schlegel e la cultura della Restaurazione non si stancano di denunciare la «malattia politica» e il «contagioso malanno dei popoli» che infuriano a partire dal 1789; ma è Metternich in persona a mettere in guardia contro la «peste» ovvero il «cancro» che devasta le menti. Per essere più esatti - incalza un altro ideologo della Restaurazione, e cioè Franz von Baader - siamo in presenza di una «follia satanicamente invasata»; al rovesciamento dell’Antico regime ha fatto seguito non la democrazia, bensì la «demonocrazia», il potere di Satana.
Più tardi, dopo l’ondata rivoluzionaria del 1848 e soprattutto dopo la rivolta operaia di giugno, Tocqueville radicalizza la lettura in chiave psicopatologica: a spiegare «la malattia della rivoluzione francese» è l’infuriare di un «virus di una specie nuova e sconosciuta». Nei Souvenirs, con riferimento al momento in cui comincia a montare l’agitazione destinata a sfociare nelle giornate di giugno, dopo aver sottolineato già per conto proprio la natura «folle» di Barbès, il liberale francese fa dire a un «medico di merito che dirigeva allora uno dei principali ospedali per pazzi di Parigi»:
«Che sventura e come è strano pensare che sono dei pazzi, dei veri pazzi che ci hanno portato a questo. Io li ho frequentati tutti e li ho avuto tutti in trattamento: Blanqui è un pazzo, Barbès è un pazzo, Sobrier è un pazzo, ma soprattutto è pazzo Huber, tutti pazzi, signore, che dovrebbero essere nella mia Salpêtrière e non qui».
Tocqueville aggiunge:
«Ho pensato sempre che in tutte le rivoluzioni, ma soprattutto nelle rivoluzioni democratiche, i pazzi, ma non quelli cui si dà tale appellativo per scherzo, ma i pazzi veri, hanno rappresentato un parte molto importante in politica».
Non manca neppure il riferimento a forze in qualche modo infernali: nelle giornate di giugno, nei quartieri popolari ridotti alla fame e alla disperazione dallo scioglimento degli ateliers nationaux, che si apprestano a resistere e che chiamano gli abitanti alla lotta, facendo risuonare il segnale di adunata generale, il nobile liberale sente risuonare «una musica diabolica». Gli abitanti ascoltano e si preparano con «aria sinistra» e smarrendo i loro tratti umani. Ecco agitarsi «una vecchia» che rassomiglia a una strega: «L’espressione schifosa e terribile della sua faccia mi fece orrore, con tanta violenza vi erano scolpiti il furore delle passioni demagogiche e la rabbia delle guerre civili».
All’indomani della Comune di Parigi, con Taine l’approccio in chiave psicopatologica celebra i suoi trionfi:
«Se è vero, infatti, che esistono malattie epidemiche per il corpo, è altrettanto vero che ne esistono anche per la mente, e tale è allora la malattia rivoluzionaria. La si ritrova contemporaneamente su tutti i punti del territorio, e ogni punto infettato contribuisce a infettarne altri. In ogni città o borgo, il club è un focolaio di infezione che aggredisce le parti sane, e ogni centro aggredito diffonde i suoi esempi come altrettanti miasmi. Ovunque la stessa febbre, lo stesso delirio e le stesse convulsioni indicano la presenza dello stesso virus, e questo virus è il dogma giacobino».
Non solo la Comune ma l’intero ciclo rivoluzionario francese è messo sul conto del «virus » e della  generale «alterazione dell’equilibrio mentale» e soprattutto del «male incurabile della mente giacobina». Diamo uno sguardo a questo o a quel protagonista della rivoluzione: «un medico riconoscerebbe immediatamente uno di quei pazzi lucidi che non vengono rinchiusi, e che pertanto sono ancora più pericolosi: definirebbe anche con termine tecnico la malattia: è il delirio di grandezza, notissimo nei manicomi». In effetti Marat si comporta «non diversamente dai suoi colleghi di Bicêtre». Come si vede, dalla Salpétrière siamo passati alla Bicêtre, ma la spiegazione delle crisi rivoluzionarie continua a essere ricercata nei manicomi.
Anche in questo caso la follia (rivoluzionaria e illuministica) ha qualcosa di diabolico. Se Voltaire è un «demone incarnato» (démon incarné), Saint-Just è il protagonista di una sorta di rito satanico:
«Annientare e sopraffare diventano un’intensa voluttà assaporata dall’orgoglio più intimo, il fumo dell’olocausto che il despota brucia sul proprio altare; in questo sacrificio quotidiano egli è insieme l’idolo e l’officiante, e offre a se stesso le vittime per dimostrare la propria divinità».
Paragonabile al ciclo rivoluzionario francese è quello che inizia in Russia nel 1905. Ed ecco che la cultura dominante riattualizza la «diagnosi» che già conosciamo. Il «virus di una specie nuova e sconosciuta» conosce ora una migrazione dalla Francia alla Russia: è così che, rinviando in modo esplicito al testo già citato di Tocqueville, argomentano François Furet e il sovietologo statunitense Richard Pipes.
La lettura in chiave psicopatologica delle grandi crisi storiche è ai giorni nostri così diffusa da fare avvertire la sua presenza anche nelle categorie centrali del discorso politico. Adorno vede nel «totalitarismo psicologico» il fondamento del totalitarismo propriamente detto: ci sono individui che «hanno a disposizione solo un io debole e hanno pertanto bisogno, come surrogato, dell’identificazione con un grande collettivo e della sua copertura». Non solo dileguano la situazione oggettiva, la geopolitica e la storia, ma non giocano alcun ruolo neppure le ideologie: «I caratteri soggetti all’autorità vengono valutati in modo del tutto errato allorché sono costruiti a partire da una determinata ideologia politico-economica».
La deriva psicologistica finisce con l’emergere anche in Arendt. Ricorrente è in lei la denuncia del «disprezzo totalitario per la realtà e la fattualità», per la «follia» di cui il totalitarismo dà prova. Anzi, immergendoci nella descrizione cui Le origini del totalitarismo procedono della «società totalitaria» si ha l’impressione di entrare in un manicomio, nella Salpétrière o Bicêtre evocate rispettivamente da Tocqueville e Taine. Non è solo il fatto che «la punizione viene inflitta senza alcuna relazione con un reato». No, c’è molto di più:
«Lo sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza […] Mentre distrugge tutte le connessioni di senso con cui normalmente si calcola e si agisce, il regime impone una specie di supersenso […] Il buon senso educato al ragionamento utilitario è impotente contro il supersenso ideologico appena il regime procede a creare da questo un mondo realmente funzionante».
In realtà, il Terzo Reich coltiva un progetto senza dubbio criminale ma lucido. Hitler cerca le «Indie tedesche» e il suo Far West in Europa orientale, dove si propone di edificare un impero coloniale di tipo continentale: gli «indigeni» slavi sono così ridotti per un verso alla condizione di «indiani» (da decimare al fine di consentire la germanizzazione dei territori conquistati), per un altro verso alla condizione di «negri» (destinati a lavorare come schiavi o semischiavi al servizio della «razza dei signori»); mentre l’annientamento attende gli ebrei, che alimentano il bolscevismo e l’insensata rivolta delle «razze inferiori» contro la civiltà e la gerarchia naturale. Giunto al potere pressappoco nel momento in cui vede la luce Mein Kampf, Stalin è impegnato a vanificare il progetto hitleriano, e l’irreggimentazione totalitaria della popolazione russa ha pur qualche rapporto con i preparativi bellici e con lo sforzo ossessivo di sviluppare al massimo e il più rapidamente possibile l’apparato produttivo e militare. Di tutto ciò non c’è traccia nella terza sezione delle Origini del totalitarismo. E, una volta che si è fatta totale astrazione dagli interessi reali e dai conflitti reali, in ultima analisi dalla storia, è chiaro che ogni grande crisi storica appare come un’esplosione di follia.  Si rivela in qualche modo tautologico il discorso di Arendt, che comunque insiste nella sua tesi centrale: il totalitarismo non è il perseguimento con metodi brutali e senza alcun scrupolo morale di obiettivi comunque logicamente comprensibili. No, nel totalitarismo abbiamo a che fare con dei «paranoici»: «L’aggressività del totalitarismo non deriva da sete di potenza; e se esso cerca febbrilmente di espandersi, non è né per smania di espansione né per profitto, ma solo per ragioni ideologiche: per dimostrare su scala mondiale che la propria ideologia aveva ragione, per edificare un mondo fittizio coerente non più disturbato dalla fattualità». In altre parole, il totalitarismo è la follia che vuole la follia.
Siamo ricondotti alla cultura della Restaurazione, come emerge da un ulteriore elemento. In relazione ai «regimi totalitari» (non solo quello hitleriano ma anche quello staliniano), Arendt fa intervenire la categoria di «male assoluto», che non può essere «compreso e spiegato coi malvagi motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria» e che dunque non può essere spiegato con la ragione. Il Satana di cui parla la cultura della Restaurazione è qui divenuto il mysterium iniquitatis. La fuga dalla storia e dalla ragione e il rifugio nel mistero restano immutati o risultano ulteriormente accentuati. Il rinvio a Satana voleva esser pur sempre una spiegazione, mentre, secondo Arendt: «Non abbiamo nulla a cui ricorrere per comprendere un fenomeno che ci sta di fronte con la sua mostruosa realtà e demolisce tutti i criteri di giudizio da noi conosciuti».

2. Incapacità di auto-riflessione e dogmatismo

Ma perché l’approccio in chiave psicopatologica è da considerare errato e fuorviante? Vediamo quello che avviene negli Stati Uniti alla vigilia della Guerra di secessione, alla vigilia cioè del tragico conflitto che finisce con lo sfociare in una rivoluzione abolizionista. L’ideologia del Sud schiavista paragona gli abolizionisti ai giacobini: i primi sono affetti da follia non meno dei secondi. Ma ora interviene una novità. Il numero degli schiavi fuggitivi aumenta, e ciò non solo allarma ma anche stupisce gli ideologi della schiavitù e della white supremacy: com’è possibile che persone ‘normali’ si sottraggano ad una società così bene ordinata e alla gerarchia della natura? Non c’è dubbio, siamo in presenza di una turba psichica, di un morbo. Di cosa propriamente si tratta? Nel 1851, Samuel Cartwright, chirurgo e psicologo della Louisiana, ritiene finalmente di poter giungere a una spiegazione che egli comunica ai suoi lettori dalle colonne di un’autorevole rivista scientifica, il «New Orleans Medical and Surgical Journal». Prendendo le mosse dal fatto che nel greco classico drapeths è lo schiavo fuggitivo, lo scienziato conclude trionfalmente che la turba psichica, il morbo che spinge gli schiavi neri alla fuga è per l’appunto la «drapetomania». Altri ideologi constatano che gli schiavi non obbediscono più agli ordini del padroni con la stessa prontezza di un tempo. Interviene di nuovo la diagnosi psicopatologica: il morbo in questione è ora la «disestesia», e cioè l’incapacità degli schiavi a comprendere e a eseguire con prontezza gli ordini del padrone.
Nel diciannovesimo secolo vediamo svilupparsi un’altra rivoluzione, quella femminista. E di nuovo ci imbattiamo nella denuncia della follia e della degenerazione che sarebbero a fondamento di questa novità inaudita. E’ un grande filosofo, Friedrich Nietzsche, a parlare delle protagoniste di questa rivoluzione come di donne malriuscite che misconoscono la loro natura di donne e sono persino incapaci di generare: «”Emancipazione della donna” - questo è l’odio istintivo della donna malriuscita, cioè di quella che non può procreare, per la donna benriuscita». La polemica contro il movimento femminista è così aspra da stimolare dichiarazioni di un disarmante filisteismo. Le «“emancipate”» sarebbero le «femmine minorate» ovvero «quelle a cui manca la stoffa per fare bambini» (Ecce Homo, Perché scrivo libri così buoni, 5).
Si possono trarre due conclusioni: in primo luogo è da notare che, storicamente, non c’è stata sfida all’oppressione che non sia stata tacciata di follia, di degenerazione, di stravolgimento della sanità e della normalità. In secondo luogo: l’approccio psicopatologico sembra presupporre una linea di demarcazione netta e univoca tra normalità e stato morboso. Non è così. I diagnostici della drapetomania e della disestesia degli schiavi fuggiaschi o indocili ovvero della degenerazione delle donne emancipate potrebbero essere essi stessi sottoposti ad analisi e rivelare sindromi preoccupanti, a cominciare dall’incapacità di orientarsi nella realtà. In altre parole, l’approccio psicopatologico si rivela incapace di auto-riflessione ed è quindi affetto da dogmatismo.
Ciò vale anche per Tocqueville. A dimostrazione della follia della «razza dei rivoluzionari che sembra nuova nel mondo» e che è all’opera in Francia, egli osserva che essa «non solo pratica la violenza, il disprezzo dei diritti individuali e l’oppressione delle minoranze, ma afferma anche - ed è qui la novità - che così deve essere». Ma vediamo ora in che modo il liberale francese celebra la prima guerra dell’oppio :
«Ecco dunque infine la mobilità dell'Europa alle prese con l'immobilità cinese! E' un grande avvenimento, soprattutto se si pensa che esso non è che il seguito, l'ultima tappa di una moltitudine di avvenimenti della medesima natura che spingono gradualmente la razza europea al di fuori dei suoi confini e sottomettono successivamente al suo impero o alla sua influenza tutte le altre razze [...]; è l'asservimento delle quattro parti del mondo ad opera della quinta. E' bene dunque non essere troppo maldicenti nei confronti del nostro secolo e di noi stessi; gli uomini sono piccoli, ma gli avvenimenti sono grandi».
E che dire poi della condotta da Tocqueville suggerita all’esercito francese al fine di condurre vittoriosamente a termine la guerra di conquista dell’Algeria?
«Distruggere tutto ciò che rassomiglia a un’aggregazione permanente di popolazione o, in altre parole, ad una città. Credo sia della più alta importanza non lasciar sussistere o sorgere alcuna città nelle regioni controllate da Abd-el-Kader» (il leader della resistenza).
In queste due dichiarazioni risuona quella celebrazione della violenza e della legge del più forte  rimproverata alla «razza dei rivoluzionari» all’opera in Francia. Ancora una volta, i fautori dell’approccio psicopatologico procedono in modo dogmatico: non applicano a se stessi i criteri che fanno valere per gli altri.
Si potrebbe obiettare con Furet che il carattere patologico della violenza giacobina (e bolscevica) risiede nel fatto che essa divora i propri figli. Sennonché, la dialettica di Saturno è ben presente nella Riforma protestante e nella prima rivoluzione inglese e si manifesta altresì, con modalità peculiari, anche nella rivoluzione americana. In occasione della Guerra di secessione, entrambi gli schieramenti si richiamano alla lotta per l’indipendenza condotta congiuntamente contro la Corona inglese. Gli abolizionisti si rifanno al principio proclamato dalla Dichiarazione di indipendenza in base al quale «tutti gli uomini sono stati creati eguali» e all’attacco solenne della Costituzione di Filadelfia in cui il «popolo degli Stati Uniti» dichiara di voler ulteriormente «perfezionare l'Unione». La pubblicistica della Confederazione rivendica l'eredità della lotta dei patrioti contro un oppressivo potere centrale, sottolinea la centralità del tema dei diritti di ogni singolo Stato nel processo di fondazione e nella tradizione giuridica del paese, fa notare che Washington, Jefferson, Monroe erano tutti proprietari di schiavi. Entrambi gli schieramenti contrapposti dichiarano di muoversi sul solco tracciato dai Padri Fondatori, ma ciò non evita anzi inasprisce ulteriormente lo scontro. Non c'è dubbio: anche in questo caso Saturno divora i suoi figli.
Vale anche la pena di notare che i coloni americani protagonisti della guerra di indipendenza contro il governo di Londra sono definiti dai loro contemporanei inglesi, con un giudizio di valore positivo o negativo, quali «i dissidenti del dissenso». E se Burke denuncia la «malattia» francese già nella primissima fase della rivoluzione, Mallet du Pan chiama in causa per questa rivoluzione l’«inoculazione americana» (inoculation américaine). Come si vede, il rinvio alla dialettica di Saturno e alla psicopatologia al fine di spiegare le rivoluzioni non ha atteso il giacobinismo per venire alla luce!

3. Oscillazioni e scelte arbitrarie

 Del resto, la diagnosi psicopatologica si caratterizza per il suo carattere arbitrario. Lo si può constatare persino nei grandi autori. Nel 1950, nel pubblicare i suoi studi sulla «personalità autoritaria», Adorno sottolinea «la correlazione tra anti-semitismo e anti-comunismo» e poi aggiunge: «Durante gli ultimi anni tutto il meccanismo di propaganda in America è stato dedicato a sviluppare l’anti-comunismo nel senso di un “terrore” irrazionale». In questo momento, a essere affetti da turbe psichiche sono gli anticomunisti. Più tardi, come abbiamo già visto, Adorno inserisce invece i comunisti, assieme ai fascisti, tra le personalità intrinsecamente autoritarie e inclini al totalitarismo!
Con un’analoga oscillazione, nel 1945 Arendt scrive che l’Urss diretta da Stalin si distingue per il «modo, completamente nuovo e riuscito, di affrontare e comporre i conflitti di nazionalità, di organizzare popolazioni differenti sulla base dell'eguaglianza nazionale»; è qualcosa «cui ogni movimento politico e nazionale dovrebbe prestare attenzione». In questo momento, a costituire un punto di riferimento è, assieme all’Unione sovietico, il leader che la dirige e che dimostra una personalità matura e equilibrata. Qualche anno dopo, nelle Origini del totalitarismo - nel frattempo è scoppiata la guerra fredda - Stalin è considerato affetto da paranoia totalitaria.
In che modo si manifesta questo morbo sciagurato? In preda all’ossessione del «nemico oggettivo», Stalin è spinto secondo Arendt a ricercare sempre nuovi bersagli per la sua macchina repressiva: dopo «i discendenti delle vecchie classi dominanti» è la volta dei kulaki, dei traditori all’interno del partito, dei «tedeschi del Volga» ecc.. Per rendersi conto della futilità di questo schema, basta riflettere sul fatto che esso potrebbe essere applicato senza difficoltà alla storia degli Stati Uniti: alla fine dell’Ottocento, essi partecipano alla celebrazione della comunità delle nazioni o delle razze germaniche (Usa, Gran Bretagna e Germania) che sono all’avanguardia della civiltà; a partire dall’intervento nella prima guerra mondiale e per decenni, i tedeschi (e gli americani di origine tedesca) diventano il nemico per eccellenza; è il momento della Grande alleanza con l’Unione sovietica che, però, dopo il crollo del Terzo Reich diviene il nemico in quanto tale, sicché, ad essere bersaglio della persecuzione non sono più gli americani di origine tedesca (o giapponese), bensì gli americani sospettati di simpatizzare col comunismo; almeno nell’ultima fase della guerra fredda, Washington può avvalersi della collaborazione da un lato della Cina, dall’altro degli islamici «freedom fighters» che alimentano la resistenza antisovietica in Afghanistan; sennonché, con la disfatta dell’Impero del Male, a rappresentare la nuova incarnazione del Male sono gli ex-alleati: i «freedom fighters» (e i loro simpatizzanti in territorio statunitense e in ogni angolo del mondo) prendono la strada di Guantanamo o subiscono l’esecuzione extra-giudiziaria a partire da droni che, volteggiando nel cielo, li spiano incessantemente e non danno loro scampo. Al tempo stesso, il formidabile dispositivo militare statunitense, che per decenni ha contenuto e minacciato l’Unione sovietica, viene largamente riposizionato in Asia, al fine di prendere di mira la Cina, l’ex-alleata o l’ex-quasi-alleata dell’ultima fase della guerra fredda.
Per quanto poi riguarda l’ossessione del «nemico oggettivo», essa si fa avvertire anche in Gran Bretagna e negli Usa: la repressione si abbatte sui simpatizzanti e potenziali collaboratori del nemico e il sospetto regna sovrano. Certo l’ossessione è più contenuta, in conseguenza sia della tradizione liberale alle spalle dei due paesi, sia soprattutto della loro favorevole situazione geopolitica. Ma conosciamo il modo di procedere di Arendt: una volta che si faccia totale astrazione dalla storia e della geopolitica, bollare un determinato comportamento quale espressione di follia è la cosa più facile di questo mondo. E’ la cosa più facile e anche più gratificante: dalla condanna della follia non solo di singole personalità ma di interi decenni di storia emerge indiretta ma tanto più forte la celebrazione della propria saggezza.
Vale anche la pena di notare che la diagnosi psicopatologica prende regolarmente di mira i campioni della rivoluzione, mai della guerra. Folli sono Robespierre e i giacobini, ma non i girondini fautori della guerra, le cui conseguenze devastanti per la libertà civile e politica sono denunciate in anticipo e con grande lungimiranza per l’appunto da Robespierre. Folli sono i bolscevichi che invocano la rivoluzione in modo da porre fine alla carneficina della prima guerra mondiale, non coloro che, pur di prolungare la partecipazione della Russia a tale carneficina, non esitano a sacrificare milioni di persone e a provocare nel paese una crisi politica, economica e sociale di spaventose proporzioni. Anzi, la prima guerra mondiale viene salutata non solo in Russia ma anche e soprattutto in Occidente come un momento di esaltante rigenerazione spirituale, e in questa opera di celebrazione e trasfigurazione si impegnano i più grandi intellettuali del tempo! Basti pensare a Weber, che celebra la guerra «grande e meravigliosa» o a Husserl, secondo il quale «idee e ideali sono di nuovo in marcia e trovano di nuovo un cuore aperto ad accoglierli», o a Freud, il quale formula la tesi secondo cui «la vita s’impoverisce, perde d’interesse, se non è lecito rischiare quella che, nel suo gioco, è la massima posta, e cioè la vita stessa». Dobbiamo considerare quale espressione di follia la trasfigurazione di un’orribile carneficina in una sorta di edificante esercizio spirituale?
Nell’impegnarsi a descrivere Il Novecento come un gigantesco manicomio criminale, Arendt avrebbe potuto tranquillamente prendere le mosse dal 1914: disponibilità a uccidere e a essere uccisi come supremo obbligo civico; esecuzione per i disertori e per i responsabili di atti anche insignificanti di disobbedienza; decimazione per le unità militari sospettate di scarso zelo omicida e suicida; criminalizzazione degli episodi di fraternizzazione che in modo spontaneo si verificano al fronte; un’ecatombe dopo l’altra di vite umane per disputarsi talvolta pochi chilometri quadrati di territorio; assalti insensati contro trincee superprotette dalle mitragliatrici e portati avanti da soldati spesso imbottiti di alcol dai loro ufficiali superiori; automutilazione di soldati che cercano disperatamente di sottrarsi al macello ma che spesso finiscono dinanzi al plotone d’esecuzione; nella Russia zarista, nonostante la mancanza di munizioni, lo stato maggiore non esita a ordinare il ricorso all'artiglieria al fine di inculcare lo zelo patriottico in reparti militari che non ne dimostrano a sufficienza; nelle retrovie caccia ai traditori e alle spie; provvedimenti punitivi contro i familiari dei disertori anche se assolutamente estranei al delitto del loro congiunto; controllo così occhiuto della vita privata da giungere (in Italia) a fissare dall’alto anche i caratteri e il millimetraggio degli annunci funebri. Il tutto al fine di difendere la Patria, il «supersenso ideologico» da Arendt indagato in relazione al totalitarismo ma non alla guerra. Il fatto è che l’approccio in chiave psicopatologica è tradizionalmente praticato per denunciare la follia rivoluzionaria ovvero, nel caso di Arendt, per assimilare alla Germania hitleriana il paese scaturito dalla rivoluzione d’ottobre e per tre decenni diretto da Stalin.

4. L’etnicizzazione del virus rivoluzionario

La messa in guardia contro il «virus di una specie nuova e sconosciuta» prende di mira gli intellettuali giacobini, da Tocqueville considerati il veicolo della «malattia della rivoluzione francese»; «siamo sempre in presenza degli stessi uomini, benché le circostanze siano diverse». Sono gli anni in cui Schopenhauer formula la tesi secondo cui il «carattere innato» non solo ha una sua «originarietà e immodificabilità», ma è anche ereditario, e fino al punto che sarebbe agevole ricostruire l'«albero genealogico» dei criminali e dei fuorilegge. Si direbbe che il liberale francese sia tentato di ricostruire l’albero genealogico di quei folli e criminali che sono gli agenti patogeni che minacciano la salute dell’organismo sociale.
Essi sembrano costituire una «razza nuova» (race nouvelle). L’espressione qui utilizzata è sintomatica: gli intellettuali portatori del «virus» della sovversione e della distruzione tendono a essere razzizzati. Così anche in Constant: «freddi nel loro delirio», gli intellettuali inguaribilmente sovversivi, questi «jongleurs de sédition», non si stancano di minare non già una determinata società ma «le basi stesse dell’ordine sociale»; sono «esseri di una specie sconosciuta» (êtres d’une espèce inconnue), costituiscono anzi una «razza nuova» (race nouvelle), una «razza detestabile» (détestable race).
Ben presto, il «virus» misterioso e malefico e la non meglio identificata «razza detestabile» cominciano ad assumere fattezze ebraiche. Assieme agli intellettuali giacobini, sottoposti all’analisi o alla gogna psicopatologica da Constant e Tocqueville, la pubblicistica controrivoluzionaria prende di mira anche gli ebrei. Secondo Friedrich von Gentz, il loro «peccato mortale» è un’«intelligenza» in cui non è «dato trovare una scintilla d’amore e di vero sentimento». La loro «maledizione» è «di non poter mai uscire dalla sfera dell’intelligenza»; «ecco perché questi mostri sono nel loro elemento laddove l’intelligenza, la stupida e criminale intelligenza, pretende di governare da sola». Il ritratto degli ebrei è il ritratto degli intellettuali giacobini e in effetti, sempre agli occhi di Gentz, gli ebrei sono i «rappresentanti nati dell’ateismo, del giacobinismo, dei lumi e via dicendo». Il morbo da cui risultano affetti i giacobini, il morbo di un’intelligenza priva del contatto con la realtà e del calore dei sentimenti, trova la sua incarnazione nel popolo ebraico. Ovvero, per dirla questa volta con Heinrich Leo, «la nazione ebraica si distingue in modo evidente fra tutte le altre nazioni di questo mondo per il fatto di possedere uno spirito sicuramente atto a corrodere e decomporre» e di abbandonarsi al culto di «un astratto concetto generale». E di nuovo siamo portati a pensare agli intellettuali giacobini quali portatori del «virus» della sovversione e membri di una «razza nuova» e «detestabile», intenta per l’appunto alla sovversione. Abbiamo visto Tocqueville e Taine rinchiudere idealmente gli intellettuali giacobini alla Salpétrière o alla Bicêtre, ma per l’antisemitismo tra Otto e Novecento, gli ebrei sono il simbolo stesso della «nevrosi» e sono studiati dall’illustre neurologo Jean Martin Charcot e dai suoi discepoli quale espressione concentrata della «nevropatia» del nomadismo e dell’incapacità di radicamento.
A partire dalla rivoluzione del 1905, il «virus di una specie nuova e sconosciuta» trasmigra dalla Francia (ormai stabilizzata) alla Russia: è la tesi di Furet e Pipes che ora, più ancora che nei giacobini, individuano nei bolscevichi, l’incarnazione della figura dell’intellettuale affetto dal morbo della sovversione. Sennonché, a partire per l’appunto dalla rivoluzione del 1905, la pubblicistica reazionaria russa accosta i bolscevichi agli ebrei, e non si tratta di un accostamento meramente ideologico. Nell’impero russo i pogrom contro gli ebrei si accompagnano alle aggressioni contro gli intellettuali rivoluzionari; questa duplice e congiunta caccia all’uomo si accentua ancora di più nel 1917, col profilarsi prima e col successo poi di quello che da un’ampia pubblicistica viene letto come il complotto ebraico-bolscevico.
E’ il punto d’approdo di una lunga tradizione di pensiero (liberale e conservatrice), impegnata a denunciare la rivoluzione come il risultato dell’agitazione scomposta e ossessiva di intellettuali «astratti», attaccati in modo maniacale alle loro «astrazioni» e quindi inguaribilmente sovversivi. Nel 1851 Engels si era fatto beffe della «superstizione che riconduceva la rivoluzione alla malvagità di un pugno di agitatori»; molto più tardi, nel 1889, aveva accennato a Tocqueville e Taine quali autori «divinizzati dai filistei», da un’opinione pubblica incapace di fare i conti con la rivoluzione francese e incline a liquidarla quale espressione di follia criminale. La superstizione filistea finisce col mettere la rivoluzione sul conto degli ebrei, questi intellettuali astratti e sovversivi per eccellenza, incapaci di riconoscersi in una tradizione storica determinati già per il fatto di essere sradicati.
Ormai è chiaro: il «virus» che agli occhi di Tocqueville era di «una specie nuova e sconosciuta» ha acquisito fattezze ben definite. Hitler non ha dubbi:
«L’isolamento del virus ebraico è una delle più grandi rivoluzioni che siano mai state compiute nel mondo. La battaglia da noi intrapresa è della stessa natura della battaglia intrapresa, nel secolo scorso, da Pasteur e da Koch. Quante malattie trovano la loro origine nel virus ebraico! [...] Solo eliminando l’ebreo ritroveremo la salute. Tutto ha una causa, niente avviene a caso».
Il processo di etnicizzazione del virus della sovversione e della distruzione raggiunge ora il suo acme. Al di là della rivoluzione francese, l’infuriare del «virus ebraico» spiega la rivoluzione d’ottobre e le rivoluzioni anticoloniali: la rivolta contro il naturale ordine gerarchico delle razze e delle classi può essere ispirata solo da un popolo privo di radici e perciò stesso incline alla negazione dissolutrice e alla distruzione.
Con riferimento ai giacobini, Constant bolla la «razza detestabile», i cui membri sono affetti da un freddo delirio; ma per gli antisemiti la «razza detestabile» portatrice del virus, che aggredisce e compromette la salute di un organismo sociale diversamente sano, non può che essere la razza ebraica. Tocqueville denuncia i giacobini quali espressione di una «razza turbolenta e distruttrice, sempre pronta ad abbattere e incapace di fondare»: è esattamente il ritratto che l’antisemitismo traccia degli ebrei. Nella diagnosi di Taine, la «mente» del militante giacobino e del rivoluzionario radicale «non è sana», per il fatto che in essa da un lato è divenuta «ipertrofica» la forza del pensiero astratto, dall’altro si è «atrofizzata» la capacità di entrare in contatto col mondo reale degli uomini e delle cose: ancora una volta, proprio in questi termini gli antisemiti che si atteggiano a medici e psichiatri diagnosticano la malattia mortale dell’intellettuale ebraico.
Ovviamente, un abisso separa dal nazismo Constant, Tocqueville e Taine, nei quali non c’è traccia alcuna di antisemitismo. Resta il fatto che la storia dell’antisemitismo è in larga parte la storia del processo di etnicizzazione della «razza detestabile» di ideologi astratti, del «virus di una specie nuova e sconosciuta» e dell’«ipertrofia» del pensiero astratto di cui parlano rispettivamente Constant, Tocqueville e Taine. E questo esito paradossale e tragico può essere letto come la reductio ad absurdum della lettura in chiave psicopatologica delle grandi crisi storiche.

5. Dalla psicopatologia alla storia

C’è un’alternativa alla lettura in chiave psicopatologica del lungo ciclo rivoluzionario in Francia e in Russia? Prima del 1848, nei momenti di maggiore equilibrio e lucidità Tocqueville argomento in modo ben diverso dal presunto diagnostico del «virus di una specie nuova e sconosciuta» che infurierebbe tra i francesi, non si sa bene perché incapaci di comprendere il valore della libertà e dignità individuale e infatuati dall’ideale dell’eguaglianza del gregge. In un capitolo della Democrazia in America possiamo leggere:
«Si è molto esagerato sugli sforzi compiuti dagli americani per sottrarsi al giogo degli inglesi. Separati da 1300 leghe di mare dai loro nemici, aiutati da un potente alleato, gli Stati Uniti dovettero la vittoria assai più alla loro posizione geografica che al valore del loro esercito o al patriottismo dei loro cittadini. Chi oserebbe paragonare la guerra americana alle guerre della Rivoluzione francese, e gli sforzi degli americani ai nostri, quando la Francia, esposta agli attacchi dell’Europa intera, senza denaro, senza credito, senza alleati, gettava la ventesima parte della sua popolazione contro i suoi nemici, spegnendo con una mano l’incendio che divorava le sue viscere, e portando con l’altro la torcia per diffonderlo intorno a sé».
Come si vede, nel confronto qui istituito tra Usa e Francia sono la «geografia» e la concreta costellazione politica dei due paesi a svolgere il ruolo di gran lunga principale; non c’è posto né per la psicopatologia né per una stereotipa psicologia dei popoli.
Un’analoga oscillazione possiamo notare in un protagonista della rivoluzione americana. Hamilton non ha dubbi sul fatto che gli «Enragés» sono dei «folli» (Madmen). Epperò, nel 1787, alla vigilia del varo della nuova Costituzione federale, Hamilton spiega che la limitazione del potere e l'instaurazione del governo delle leggi ha avuto successo in due paesi di tipo insulare, dal mare messi al riparo dalle minacce delle potenze rivali e concorrenti. Se dovesse fallire il progetto di Unione e delinearsi sulle sue rovine un sistema di Stati analogo a quello esistente sul continente europeo, farebbero la loro apparizione anche in America i fenomeni dell'esercito permanente, di un forte potere centrale e, persino, dell'assolutismo: «Verremmo così a vedere, in un breve volgere di tempo, ben saldi in tutto il nostro Paese, quei medesimi strumenti di tirannide che hanno rovinato il Vecchio Mondo» («The Federalist», art. n. 8).
A dimostrare particolare lucidità è Hegel. Le Lezioni di filosofia della storia fanno notare due punti essenziali:
1) «I liberi Stati nordamericani non hanno nessuno Stato confinante con il quale si trovino in un rapporto analogo a quello degli Stati europei fra di loro, uno Stato che debbano guardare con diffidenza e contro il quale debbano mantenere un esercito permanente». 2) «La via d’uscita della colonizzazione» consente alla repubblica nordamericana di disinnescare in notevole misura il conflitto sociale. In ultima analisi: «se le foreste della Germania fossero ancora esistite, è certo che non avremmo avuto la rivoluzione francese», oppure questa si sarebbe manifestata in modo meno radicale e meno tormentato. A sua volta Engels fa notare che in «Nord-America [...] i conflitti di classe sono sviluppati solo in modo incompleto; le collisioni di classe vengono di volta in volta camuffate mediante l’emigrazione all’Ovest della sovrappopolazione proletaria». Quest’analisi può essere ulteriormente arricchita: l’istituto della schiavitù ha consentito il ferreo controllo delle «classi pericolose» sul luogo stesso di produzione, mentre l’assenza sul continente americano di altre grandi potenze e di serie minacce alla sicurezza nazionale ha reso ben più difficile che in Europa l’insorgere dello stato di eccezione e delle situazioni di crisi acuta che mettono in pericolo o fuori gioco la rule of law. Ma di tutto ciò non c’è traccia nella contrapposizione stereotipa di francesi e anglosassoni, cara a Tocqueville (e alla tradizione liberale nel suo complesso).
Ma a provocare una crisi storica acuta e prolungata non basta da sola la situazione di precarietà geopolitica. C’è un altro fattore decisivo di cui occorre tener conto: il conflitto che a un certo punto interviene tra diversi principi di legittimazione del potere. Con una tripartizione ormai divenuta classica, Max Weber ha distinto potere tradizionale, potere legale e potere carismatico. Nel corso della guerra di indipendenza condotta dai coloni americani, il potere tradizionale e legale (costituito congiuntamente dalla Corona e dagli organismi rappresentativi) non subiscono scosse di rilievo: la ribellione contro Giorgio III e il governo di Londra non mette in discussione la legittimità e la continuità degli organismi rappresentativi che da tempo operano sul suolo americano e che finiscono con l’essere egemonizzati dai coloni ribelli; tanto più che Giorgio III e il governo sono collocati a migliaia di chilometri di distanza e non intervengono in alcun modo nella vita quotidiana dei sudditi o dei cittadini collocati al di là dell’Atlantico. Ben diversa è la situazione che si viene a creare nel corso della rivoluzione francese: con la fuga del re a Varennes e con l’emergere della sua connivenza col nemico, il tradizionale potere monarchico è discreditato ed entra in rotta di collisione con il potere legale che si va faticosamente costituendo. Tanto più devastante è lo scontro, per il fatto che esso avviene mentre ormai infuria una guerra che richiede invece un potere forte e accentrato. Il prolungarsi delle ostilità sfocia nell’emergere di una personalità carismatica (Napoleone) e di un potere carismatico, che entra in contraddizione sia col potere legale che col tradizionale potere monarchico. La proclamazione del Primo Impero ha luogo a partire dalla presa di coscienza da parte di Napoleone della particolare precarietà del potere carismatico, che in effetti non sopravvive alla sconfitta militare e a Waterloo. Ma l’avvento al potere di Luigi Filippo non riesce a ridare saldezza e vitalità al tradizionale potere monarchico, che già al suo interno risulta indebolito e lacerato a causa della concorrenza borbonica e bonapartista, per non parlare della sfida che proviene dall’esterno, e cioè dalla tradizione rivoluzionaria che, dileguata la sfida di Napoleone e del potere carismatico, cerca faticosamente di costituirsi come potere legale.
Si potrebbe ancora continuare a lungo, ma ormai un punto dovrebbe essere chiaro. Il misterioso «virus di una specie nuova e sconosciuta» non è altro, a ben guardare, che l’intreccio devastante tra la fragilità della situazione geopolitica e una lotta prolungata caratterizzata dallo scontro non solo per la conquista e il controllo del potere ma anche per l’affermazione di diversi e contrapposti principi di legittimazione del potere.
Osservazioni analoghe si possono fare a proposito del lungo ciclo rivoluzionario russo. Per quanto riguarda la dimensione geopolitica del problema, conviene richiamare l’attenzione sul colloquio che nell’aprile del 1947, mentre già si profila la guerra fredda, Stalin ha con il candidato repubblicano Harald Stassen: il primo sottolinea con una certa invidia la situazione straordinariamente favorevole degli Usa, protetti da due oceani e confinanti a Nord e a Sud con il Canada e il Messico, due paesi deboli, che non rappresentano certo una minaccia. Trova qui espressione con particolare chiarezza una preoccupazione che accompagna Stalin sin dal suo avvento al potere.
E come in Francia, anche in Russia, la fragilità della situazione geopolitica s’intreccia col divampare di una lotta prolungata non solo tra diversi aspiranti al potere ma anche tra contrapposti principi di legittimazione del potere in quanto tale. Per seguire ancora una volta la tripartizione classica di Weber, il potere tradizionale aveva seguito nella tomba la famiglia degli zar, anche se questo o quel generale cercava disperatamente di riesumarlo; già incrinatosi in seguito all’aspro conflitto emerso in occasione della trattative di Brest-Litovsk, il potere carismatico non sopravvive alla morte di Lenin; infine, il potere legale incontra straordinarie difficoltà di affermazione, dopo una rivoluzione che trionfa agitando un’ideologia tutta attraversata dall’utopia enfatica dell’estinzione dello Stato, in un paese dove l’odio dei contadini per i loro signori si esprimeva tradizionalmente in toni violentemente antistatalistici.
Nella misura in cui un potere carismatico era ancora possibile, esso tendeva a prender corpo nella figura di Trotskij, il geniale organizzatore dell’Armata rossa e il brillante oratore e prosatore che pretendeva di incarnare le speranze di trionfo della rivoluzione mondiale e che da ciò faceva discendere la legittimità della sua aspirazione a governare il partito e lo Stato. Stalin era invece l’incarnazione del potere legale-tradizionale, che cercava faticosamente di prender forma: al contrario di Trotskij, giunto tardi al bolscevismo, egli rappresentava la continuità storica del partito protagonista della rivoluzione e quindi detentore della nuova legalità; per di più, affermando la realizzabilità del socialismo anche in un solo (grande) paese, Stalin conferiva una nuova dignità e identità alla nazione russa, che così superava la crisi spaventosa, ideale oltre che materiale, subita a partire dalla disfatta e dal caos della prima guerra mondiale, e ritrovava la sua continuità storica. Ma proprio per questo gli avversari gridavano al «tradimento», mentre traditori agli occhi di Stalin e dei suoi seguaci apparivano quanti col loro avventurismo, facilitando l’intervento delle potenze straniere, mettevano in pericolo in ultima analisi la sopravvivenza della nazione russa, che era al tempo stesso il reparto d’avanguardia della causa rivoluzionaria.
E forse qui interviene un motivo di ulteriore complicazione rispetto alla situazione della Francia. Nel caso della Russia lo stesso richiamo alla legalità rivoluzionaria è un motivo di lacerazione e di scontro all’interno stesso delle forze che hanno rovesciato l’Antico regime. Lo scontro tra Stalin e Trotskij è il conflitto non solo tra due programmi politici ma anche tra due contrapposte letture della legalità rivoluzionaria e dunque tra due contrapposti principi di legittimazione nell’ambito stesso del fronte rivoluzionario.
Si comprende allora che la lunga crisi rivoluzionaria russa è stata talvolta definita come un «Secondo periodo dei disordini», in analogia a quello che infuria in Russia nel diciassettesimo secolo. La lotta tra i pretendenti al trono, che si sviluppa intrecciandosi alla crisi economica e alla rivolta contadina nonché all’intervento delle potenze straniere, si acuisce nel Novecento col sopraggiungere del conflitto anche tra i diversi principi di legittimazione del potere.

6. Alla ricerca delle origini della follia

Piuttosto che impegnarsi in una faticosa analisi storica, l’approccio in chiave psicopatologica preferisce cavarsela a buon mercato rinviando alla follia ideologica. Ma quand’è che questa ha cominciato a infuriare? Le origini del totalitarismo di Arendt la vedono insorgere in Stalin (e così, in qualche modo, risparmiano Lenin). La teoria oggi più diffusa del totalitarismo prende le mosse, invece, dall’ottobre 1917. Più radicale è invece Pipes, secondo il quale, dopo essersi manifestato in Francia con l’illuminismo e le sociétés de pensée, il virus funesto avrebbe infuriato in Russia a partire non da Stalin o dall’ottobre 1917 ma già dalla rivoluzione del 1905. In modo analogo argomenta Furet e in modo analogo argomenta, un secolo prima, Taine, che abbiamo visto criticare Voltaire in quanto «demone incarnato» e che spiega i deliri della rivoluzione col fatto che la Francia era «inebriata dalla cattiva acquavite del Contratto sociale». Come si vede, anche la scelta del punto di partenza è arbitraria.
Si può ora considerare conclusa la ricerca a ritroso delle origini del maledetto virus rivoluzionario? Niente affatto! Alle spalle della rivoluzione che in Francia liquida l’Antico regime agisce in Germania la Guerra dei contadini che, guidati da Müntzer, insorgono contro i feudatari e pretendono di abolire la servitù della gleba. I protagonisti di questa rivoluzione sono bollati da Lutero quali «pazzi profeti» (tolle Propheten) che eccitano la «pazza plebaglia» (tolle Pöbel), quali «visionari» (Schwärmer, Geister, Schwarmgeister), quali folli che hanno totalmente smarrito il senso della realtà. Ma questa campagna contro l’ex-discepolo divenuto folle non impedisce a Lutero di essere a sua volta annoverato da Nietzsche tra gli «spiriti malati» ovvero tra gli «epilettici dell’idea» (assieme a Savonarola, Rousseau, Robespierre, Saint-Simon) (L’Anticristo, 54).
Sì, secondo Nietzsche, per cogliere le prime origini del morbo rivoluzionario occorre procedere decisamente più a ritroso di quanto facciano i consueti critici della rivoluzione: la follia che vorrebbe l’avvento di un mondo perfetto e egualitario e che condanna la ricchezza e il potere in quanto tali ha cominciato a manifestarsi già col cristianesimo e anzi, ancor prima, coi profeti ebraici. A partire dalla persuasione della lunga durata del ciclo rivoluzionario che infuria in Occidente, Nietzsche invita a procedere finalmente alla resa dei conti con «il mondo da manicomio di interi millenni» e con le «malattie mentali» che infuriano a partire dal «cristianesimo» (L’Anticristo, 38). Si potrebbe leggere questa conclusione come l’involontaria reductio ad absurdum dell’interpretazione in chiave psicopatologica del conflitto politico e, in particolare, delle grandi crisi storiche. Ma non si dimentichi che Nietzsche dichiara di essere «passato attraverso la scuola di Tocqueville e Taine», col quale ultimo è in rapporti epistolari improntati a reciproca stima. D’altro canto, ancora ai giorni nostri, sulla scia del filosofo tedesco un illustre storico delle religioni (Mircea Eliade) e un eminente filosofo (Karl Löwith) spiegano la follia sanguinaria del Novecento prendendo le mosse da lontano, molto lontano: tutto sarebbe iniziato in un tempo assai remoto col rifiuto del mito dell’eterno ritorno e con l’avvento della visione unilineare del tempo e della connessa fede nel progresso, tutto sarebbe iniziato con l’affermarsi ancora una volta della cultura ebraica e cristiana. La tendenza a liquidare le grandi crisi storiche (e in ultima analisi la storia universale) quali espressioni di follia caratterizza la cultura odierna in modo forse ancora più forte che la cultura della Restaurazione.
Ma come spiegare il fatto che le esplosioni di follia si manifestano in certi paesi più frequentemente e su scala più larga che in altri? E’ nota la tendenza di Tocqueville a celebrare il superiore senso morale e pratico e il più forte attaccamento alla libertà che, in contrapposizione ai francesi, caratterizzerebbero gli americani.  E cioè, la lettura in chiave psicopatologica del conflitto tende a sfociare in una lettura in chiave etnologica (e tendenzialmente razziale). E’ una tendenza che si manifesta con forza anche nella storiografia e nella cultura contemporanea. Secondo Norman Cohn, l’Inghilterra «si fa notare per un’assenza quasi totale di tendenze chiliastiche» e di «chiliasmo rivoluzionario», che invece infuriano tra Francia e Germania. Più radicale nella deriva etnologica (e in ultima analisi razziale) è Robert Conquest, che vede nella Francia e nella Russia (e nella Germania) i luoghi delle «aberrazioni mentali», dalle quali risultano invece immuni le rivoluzioni inglese (si parla solo del Glorious Revolution del 1688) e americana. C’è di più: la civiltà autentica trova la sua espressione più compiuta nella «comunità di lingua inglese» e il primato di tale comunità ha un suo preciso fondamento etnico, costituito dagli «anglocelti». A questo punto una domanda s’impone: perché mai il culto degli «anglocelti» dovrebbe essere più accettabile del culto degli «ariani» caro in modo particolare ai nazisti?

7. Un’improvvisa esplosione di follia?

Mentre da un lato, nell’inseguire le origini del morbo della rivoluzione o del «totalitarismo» in quanto tali, la consueta lettura ideologica ed edificante spesso approda a un passato così remoto che tende a sfociare in una mitica natura (etnica o apertamente razziale), dall’altro questa medesima lettura ideologica ed edificante dimentica o rimuove il passato che è immediatamente alle spalle di una crisi storica ben determinata, sicché quest’ultima finisce col configurarsi come una manifestazione imprevista e imprevedibile di follia.
Sennonché, contrariamente a quello che ritiene e afferma l’approccio in chiave psicopatologica, il carattere catastrofico della crisi rivoluzionaria in Russia è stato previsto con decenni di anticipo da autori tra loro assai diversi. Nel 1811, dalla Pietroburgo ancora scossa dalla rivolta contadina capeggiata da Pugacev, Maistre vede profilarsi una rivoluzione (questa volta appoggiata dai «Pugacev dell’Università», cioè dagli intellettuali di estrazione popolare) di un’ampiezza e radicalità tali da far impallidire la rivoluzione francese. Nel 1859 Marx avverte: se la nobiltà continuerà a opporsi a una reale emancipazione dei contadini, ne scaturirà un cataclisma sociale «senza precedenti nella storia». Nel 1905, è lo stesso primo ministro russo S. Witte a esprimersi in termini simili!
Considerazioni analoghe si possono fare per la crisi sfociata in Germania nell’avvento di Hitler al potere. Poco dopo la firma del Trattato di Versailles, il maresciallo Ferdinand Foch osserva: «non è la pace, è solo un armistizio per venti anni». Nel 1921, dalla Russia sovietica è Lenin a mettere in guardia contro la «prossima guerra imperialista» che si profila all’orizzonte e che si preannuncia ancora più mostruosa di quella precedente: «si massacreranno 20 milioni di uomini (invece di 10 milioni uccisi nella guerra 1914-1918 e nelle “piccole” guerre complementari non ancora finite); saranno mutilati - in questa prossima guerra, inevitabile (se si manterrà il capitalismo) - 60 milioni di uomini (invece di 30 milioni mutilati nel 1914-1918». In quello stesso periodo di tempo il grande economista John Maynard Keynes, che ha fatto parte della delegazione inglese a Versailles, mette in guardia contro le conseguenze di una «pace cartaginese»: «La vendetta, oso prevedere, non tarderà. Nulla potrà allora ritardare a lungo quella guerra civile finale tra le forze della reazione e le disperate convulsioni rivoluzionarie, di fronte a cui gli orrori dell’ultima guerra tedesca svaniranno nel nulla e distruggeranno, chiunque sia il vincitore, la civiltà e il progresso della nostra generazione». L’imperialismo tedesco non avrebbe tardato a tentare la rivincita; ed esso tanto più facilmente conquista un consenso di massa, quanto più i vincitori della prima guerra mondiale si mostrano vendicativi e miopi.
Il nazismo si caratterizza anche per la sua pretesa di riprendere la tradizione coloniale per farle, nelle sue forme più barbare, nella stessa Europa orientale. Ebbene, a partire già dall’Ottocento la più avanzata cultura europea si è posto un interrogativo angoscioso: cosa sarebbe avvenuto se i metodi di governo e di guerra in atto nelle colonie avessero finito con l’imporsi anche nella metropoli? Lo stesso sterminio degli ebrei non si verifica affatto in modo improvviso. Basti dire che nella Russia dilaniata dalla guerra civile, gli ebrei, bollati in quanto burattinai del bolscevismo, diventano vittime di massacri scatenati dalle truppe bianche appoggiate dall’Intesa: è il «preludio» - osservano autorevoli storici - di quella che sarà poi la «soluzione finale». Fa allora sorridere la tesi formulata da Benedetto Croce sul finire della seconda guerra mondiale, mentre montava la critica per il sistema politico-sociale che aveva reso possibile l’orrore. Secondo il filosofo idealista, «il fascismo e il nazismo furono un fatto o un morbo intellettuale e morale, non già classistico ma di sentimento, d’immaginazione e di volontà genericamente umana», mentre, per quanto riguarda più propriamente l’Italia, l’avvento della dittatura fascista faceva pensare a un’improvvisa e inspiegabile esplosione di barbarie e di follia, era da paragonare all’«invasione degli Hyksos».
In conclusione. La lettura in chiave psicopatologica (e persino demonologica) delle grandi crisi storiche da un lato consente di liquidare come espressione di follia il gigantesco processo di emancipazione che va dalla rivoluzione francese (anzi dall’illuminismo) alla rivoluzione d’ottobre; dall’altro mette il fascismo e il nazismo sul conto di singole personalità malate, assolvendo indirettamente il sistema politico-sociale e la tradizione ideologica che hanno prodotto quei movimenti e quei regimi.






TESTI CITATI

Per il primo paragrafo (Dalla Restaurazione a Hannah Arendt), cfr. Heinrich von TREITSCHKE, Deutsche Geschichte im neunzehnten Jahrhundert, Leipzig, 1879-1894, vol. 3, p. 153 (per F. Schlegel e Metternich); Benedikt F. X. von BAADER, Sämtliche Werke, a cura di F. Hoffmann et alii, Leipzig 1851-1860), ristampa anastatica, Scientia, Aalen, vol. 6, pp. 21-22 e 26; Alexis de TOCQUEVILLE, Oeuvres complètes, a cura di J. P. Mayer, Gallimard, Paris, 1951 sgg., vol. 13. 2, pp. 337 (per la «malattia» e il «virus»), e vol. 12, pp. 136, 139 e 159 (per i Souvenirs); Hippolyte TAINE,  Les origines de la France contemporaine. L’Ancien Régime (1876), tr. it., a cura di P. Bertolucci, Le origini della Francia contemporanea. L’antico regime, Adelphi, Milano, 1986, p. 347 (per Voltaire); H. Taine, Les origines de la France contemporaine. La Révolution (1878-84), tr. it., a cura di P. Bertolucci, Le origini della Francia contemporanea. La Rivoluzione, Adelphi, Milano, 1989, vol. 1, pp. 962. 594 e 597 (per il «virus», l’«alterazione dell’equilibrio mentale» e il «male incurabile»), vol. 2, pp. 214, 217 (per i «pazzi lucidi» e la Bicêtre) e p. 360 (per Saint-Just); Domenico Losurdo, Il revisionismo storico, Laterza, Roma-Bari, 1996, cap. I, § 1 (per Furet e Pipes); Theodor W. Adorno, Eingriffe. Neun kritische Modelle, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1964, pp. 132-3; Hannah Arendt, The Origins of Totalitarianism (1951; 3° ed. 1966), tr. it., di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano, 1989, pp. 626-29.

Per il secondo paragrafo (Incapacità di auto-riflessione e dogmatismo), cfr. Emily Eakin, Is Racism Abnormal? A Psychiatrist Sees It as a Mental Disorder, in «International Herald Tribune» del 17 gennaio 2000, p. 3 (per la «drapetomania»); Wyn C. Wade, The Fiery Cross. The Ku Klux Klan in America, Oxford University Press, New York-Oxford, 1997, p. 11 (per la «disestesia»); A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, vol. 2.2, p. 337 (per la «razza dei rivoluzionari»), vol. 6. 1, p. 58 (per la guerra dell’oppio) e 3.1, p. 229 (per la guerra contro l’Algeria); D. Losurdo, il revisionismo storico, cap. II, § 6 (per i «dissidenti del dissenso»); D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, cap. VIII, § 7 (per Burke); Alphonse Aulard, Histoire politique de la Révolution française (1926), Scientia, Aalen (riproduzione anastatica), 1977, p. 19, nota 1 (per Mallet Du Pan).

Per il terzo paragrafo (Oscillazioni e scelte arbitrarie), cfr. Theodor W. Adorno, Studies in the Authoritarian Personality, in Id., Gesammelte Schriften, Suhrkamp, Frankfurt a. M., vol. 9. 1, p. 430; D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma, 2008, pp. 13 e 233-39 (per Arendt); D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guer­ra», Bollati Boringhieri, Torino, 1991, cap. 1 (per Weber, Husserl e Freud); D. Losurdo, Il revisionismo storico, capp. III, 3 e V, 2 (per il clima della prima guerra mondiale).

Per il quarto paragrafo (L’etnicizzazione del virus rivoluzionario), cfr. A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, vol. 13. 2, p. 337 (per la «malattia della rivoluzione francese», la «razza nuova» costituita sempre degli «stessi uomini» e la «razza turbolenta»); Arthur Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung. Ergänzungen (1844), in Sämtliche Werke, a cura di W. v. Löhneysen, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1976-82, vol. 2, pp. 767 e p. 666; D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, cap. VIII, § 11 (per Constant); D. Losurdo, Il revisionismo storico, cap. V, § 8 (per Gentz e Leo); Pierre Birnbaum, «La France aux Français». Histoire des haines nationalistes, Seuil, Paris, 1993, p. 35 (per la «nevrosi») e Léon Poliakov, Le Mythe aryen. Essai sur les sources du racisme et des nationalismes (1971), nuova ed. accresciuta, Complexe, Bruxelles, 1987, pp. 322-23 (per la «nevropatia» ebraica); Karl Marx, Friedrich Engels, Werke, Dietz, Berlin, 1955-89, vol. 8, p. 5 e vol. 37, p. 154; Adolf  Hitler, Tischgespräche, a cura di H. Picker (1951), Ullstein,  Frankfurt a. M.-Berlin, 1989, p. 78; H. Taine, Les origines de la France contemporaine. La Révolution, tr. it. cit., vol. 1, p. 597.

Per il quinto paragrafo (Dalla psicopatologia alla storia), cfr. A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, vol. 1.1, p. 114; Stanley Elkins e Eric McKitrick, The Age of Federalism. The Early American Republic, 1788-1800, University Press, New York-Oxford, 1993, p. 319 (per i Madmen); Georg W. F. Hegel, Werke in zwanzig Bänden, a cura di E. Moldenhauer e K. M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1969-79, vol. 12, pp. 114 e 113; K. Marx, F. Engels, Werke, vol. 7, p. 288, D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, p. 237 (per il colloquio con Stassen) e pp. 103-04 (per il conflitto tra i principi di legittimità).

Per il sesto paragrafo (Alla ricerca delle origini della follia), cfr. D. Losurdo, Il revisionismo storico, cap. I, § 1; H. Taine, Les origines de la France contemporaine. La Révolution, tr. it. cit., vol. 1, p. 569; Martin Luther, Ermahnung zum Frieden auf die zwölf Artikel der Bauernschaft in Schwaben (1525), in Die Werke, a cura di K. Aland, Klotz-Vandenhoeck & Ruprecht, Stuttgart-Göttingen, 1967, vol. 7, pp. 165, 168, 174 e 180; M. Luther, Daß diese Worte: Das ist mein Leib etc. noch feststehen. Wider die Schwarmgeister (1527), in Werke, a cura di Diaconus Dr. Buchwald et alii, Schwetschke, Braunschweig, 1890, vol. 4, pp. 342 sgg.; D. Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino, 2002, cap. 28, § 2 (per il richiamo di Nietzsche a Tocqueville e Taine); Norman Cohn, The Pursuit of the Millennium (1957), tr. it., di A. Guadagnin, I fanatici dell’Apocalisse, Comunità, Torino, 2000, p. 21; Robert Conquest, Reflections on a Ravaged Century (1999), tr. it., di L. Vanni, Il secolo delle idee assassine, Mondadori, Milano, 2001, pp. 15, 275 sgg. e 307.

Per il settimo paragrafo (Un’improvvisa esplosione di follia?), cfr. D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, p. 257 (per la previsione di Foch), pp. 95 sgg. (per i prodromi della grande crisi storica in Russia) e 199 sgg. (per il «preludio» alla «soluzione finale»); Vladimir I. Lenin, Opere complete, Editori Riuniti, Roma, 1955-70, vol. 33, p. 41; John M. Keynes, The economic consequences of the peace (1920), Penguin Books, London, 1988, pp. 56 e 267-68; Benedetto Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), a cura di A. Carella, Bibliopolis, Napoli, 1993, vol. 2, pp. 51 e 101.


Traduzione tedesca in «Marxistische Blätter», 2012, n. 1, pp. 89-103; versione francese ridotta in Antoine Casanova et alii, La raison et ses combats. Lumière, rationalisme moderne, Révolution, hier et aujourd’hui, Actes du colloque de la Fondation Gabriel Péri, Paris, 2012, pp. 21-32.

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