Domenico Losurdo: “Il movimento socialista è nato
dall'incontro fra teoria scientifica e lotta di classe: da qui dobbiamo
partire!”
#politicanuova intervista Domenico Losurdo, Professore emerito di Storia della
Filosofia all'Università di Urbino, tra i maggiori intellettuali contemporanei,
che recentemente ha pubblicato “La
sinistra assente” (Carocci, 2014), un'analisi a proposito dell'assenza, in
Occidente, di una forza d'opposizione in grado di incidere nella realtà e
d'offrire la prospettiva della trasformazione sociale.
A cura di Aris
Della Fontana
1. Lei
afferma che «la sinistra dilegua proprio nel momento in cui è chiamata a
reagire ai processi in atto». Come si spiega questa contraddizione?
Quando parlo del
dileguare della sinistra, mi riferisco all'Occidente. La sinistra dilegua, per
esempio, dinanzi all'aggravarsi della situazione internazionale. Oggi stiamo
assistendo a una serie di guerre neo-coloniali, particolarmente nel Medio
Oriente: è un dato di fatto che viene riconosciuto persino da commentatori
borghesi, ma che la sinistra occidentale, invece, tace. E oggi i pericoli di
guerra si stanno aggravando: ne “La sinistra assente” cito un illustre analista
quale Sergio Romano, secondo cui gli Stati Uniti hanno come obiettivo
l'acquisizione di una sorta di monopolio sostanziale dell'arma nucleare; e ciò,
all'occorrenza, anche al fine di poter scatenare un primo colpo nucleare
impunito. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una prospettiva decisamente
allarmante. Ma la sinistra occidentale latita. Nel libro spiego le ragioni
storiche di questa latitanza, ma fermarsi a ciò non basta. Di fronte
all'aggravarsi dei conflitti sul piano internazionale, delle tendenze
neo-colonialiste e della minaccia imperialista, s'impone la necessità d'una
chiara risposta da parte della sinistra – anche sul piano ideologico - e con
ciò una sua riorganizzazione. Ma purtroppo siamo ancora disgraziatamente
lontani da tale momento.
2. Di fronte
alla «crisi economica e politica» e ad un «deteriorarsi della situazione
internazionale» che desta importante preoccupazione in particolare per i venti
di guerra che spirano sempre più forti, si pone, per la sinistra, la questione
delle tempistiche, e cioè della necessità di agire in rapporto a margini non
eternamente posponibili? Se la sinistra non si attiva ora, in seguito sarà
troppo tardi?
Per quanto
concerne lo stato della situazione internazionale, ribadisco quanto sostenuto
poco sopra. La sinistra è indubbiamente in ritardo. Questo di per sé non è un
fatto nuovo. Prendere coscienza di una situazione oggettiva è un processo
faticoso e quindi un certo ritardo è quasi la regola. Però oggi ci troviamo
dinanzi a qualcosa di assolutamente inedito. In seguito al trionfo occidentale
nella Guerra Fredda ha avuto luogo una demolizione sistematica della
complessiva storia del movimento comunista. Ciò ha prodotto effetti devastanti
sul fronte dell'incisività politica ed egemonica. Occorre dunque prima di tutto
colmare tale ritardo. E, pur essendo un obbligo morale, dobbiamo essere
consapevoli che si tratta di un'impresa estremamente complessa. Occorre
sentirne l'urgenza, ma senza scoraggiarci per i ritardi, i quali in qualche
modo sono inevitabili.
3. Attraverso
il «monopolio delle idee e soprattutto delle emozioni» le classi dominanti hanno
eseguito un “salto di qualità” nell'ambito del controllo del potere, e cioè
dell'egemonia e della lotta di classe? Il concentrarsi, da parte delle prime,
sulla suggestione spettacolare denota una lacunosità in fatto di argomenti
sostanziali? E, se ciò fosse tale, esistono i margini, da parte della sinistra,
per incidere proprio attraverso un solido apparato analitico? Quest'ultima
operazione, ancorché valente, non rischierebbe di essere silenziata dai fini
meccanismi della «società dello spettacolo»? In tal senso, come va impostata, a
sinistra, la questione comunicativa?
La situazione
odierna è più difficile che ai tempi di Marx. Egli constatò come la classe che
detiene il monopolio della produzione materiale ha anche il monopolio della
produzione intellettuale. Ma oggi c'è una novità: la borghesia detiene, oltre a
quello delle idee, anche e soprattutto il monopolio delle emozioni; ed è grazie
a quest'ultimo che che si scatenano le guerre e i colpi di stato
dell'imperialismo.
E, per
rispondere al quesito, mi pare esemplare proprio il caso del ricorso a quello
che definisco il «terrorismo dell'indignazione»[1],
ossia il fatto di suscitare scientemente una vera e propria ondata di
indignazione in grado di giustificare la guerra: ciò denota anche una
mancanza di argomenti razionali da parte delle classi dominanti. Questa
particolare forma di terrorismo, come detto, ha avuto una funzione decisiva
nello scatenamento delle ultime guerre. Però non è adeguato assolutizzarne gli
effetti. Se per esempio confrontiamo la reazione che a sinistra si è
verificata, poco tempo fa, per i fatti di Ucraina
con quella avutasi, in un passato un po' meno recente, in occasione della
guerra contro la Libia o di quella contro la Jugoslavia, si può osservare come
il terrorismo dell'indignazione incontri qualche difficoltà in più.
A sinistra,
infatti, c'è qualcuno che comincia a comprendere il funzionamento e le finalità
di questo terrorismo dell'indignazione. E personalmente credo, con la mia
ricerca, di poter contribuire all'allargarsi di questa importante presa di
coscienza. Ovviamente è inutile farsi illusioni: non esiste un'arma magica che
neutralizzi una volta per sempre il monopolio della diffusione delle emozioni e
con ciò il terrorismo dell'indignazione. La priorità, in tal senso, è
contrapporre ad esso un solido sistema di argomentazioni alternative, in grado
di essere ampiamente condiviso. E, per conseguire tale finalità, il partito di tipo leninista rappresenta uno strumento
essenziale.
4. Se c'è una
«sinistra imperiale» che si cala nella realtà con argomenti e progetti
pressoché indistinguibili dagli altri partiti borghesi, ce n'è anche un'altra
che «non si appiattisce sull'esistente, rispetto al quale anzi vuole costruire
un'alternativa radicale». Quest'ultima, però, è in grado di prendere le mosse
«dai movimenti e dalle 'lotte reali'», e quindi di porre i presupposti per
incidere politicamente? Esiste, in tal senso, il pericolo della «fuga nella
teoresi» (Burgio), e cioè dell'elusione delle responsabilità politiche e organizzative
conseguente all'oggettiva difficoltà di muoversi tra i corpi reali?
Credo sia
sufficiente sottolineare un fatto storico di centrale importanza: il movimento
che si è richiamato al socialismo è nato dall'incontro fra, da una parte, la
teoria rivoluzionaria e scientifica e, dall'altra, il movimento concreto e cioè
le lotte di classe reali. Ed è attorno a tale specifico incontro che oggi,
ancora, dobbiamo puntare. Da questo punto di vista, concretamente, si tratta di
non abbandonarsi né al teoreticismo astratto né all'empirismo. Questa, invero,
è la fondazione e la storia del leninismo.
5. Ne La
sinistra assente viene usata l'espressione «romanticismo rivoluzionario»; di
esso si afferma il ruolo fortemente negativo allorquando pervade coloro i quali
si confrontano con il processo d'indipendenza dei paesi ex coloniali. Ad esso
possono essere collegati tendenze quali il «rozzo egualitarismo» e l'«ascetismo
universale», trattate ne La lotta di classe (Laterza, 2013)?
Un'emblematica
dimostrazione delle conseguenze del romanticismo rivoluzionario si ha
nell'atteggiamento che taluni hanno di fronte alla figura di Ernesto Che
Guevara. Egli suscita emozioni ed entusiasmo allorché si pensa al guerrigliero
rivoluzionario – e ben si comprende, sia chiaro, questa intensa partecipazione.
E, però, se riduciamo Che Guevara a questa raffigurazione, ne dimidiamo il
profilo, poiché egli, oltre ad essere stato uno dei protagonisti della lotta
armata che rovesciò la dittatura di Fulgencio Batista, è stato anche il teorico
della lotta di Cuba contro l'aggressione economica - espressione non a
caso da egli coniata.
Il romanticismo
rivoluzionario è la dinamica nell'ambito della quale, da un lato, ci si
commuove e ci si indigna allorché è in atto una lotta armata e, dall'altro,
invece, si è incapaci di concepire che tale lotta armata, ai giorni nostri, ha
la sua continuazione più spiccata nella lotta finalizzata alla liberazione
dalla dipendenza economica e tecnologica e cioè nell'emancipazione dal
neo-colonialismo. Cito spesso un passaggio di Empire (2000), lo scritto
di Michael Hardt e Antonio Negri. I due autori esprimono una solidarietà nei
confronti della Palestina che, tuttavia, si verrebbe a dileguare laddove
quest'ultima divenisse uno Stato nazionale. Una solidarietà, dunque, che si
attiva esclusivamente nei confronti d'un popolo palestinese che subisce
disfatte; invece, nella misura in cui esso conseguisse potenziali vittorie e,
in legame a ciò, si edificasse quale Stato nazionale indipendente, tale
vicinanza si dileguerebbe. Il seguace del romanticismo rivoluzionario
s'emoziona per gli sconfitti, ma non riesce a provare sentimenti simpatetici
allorché lo sconfitto tenta di andare oltre la situazione che lo caratterizza.
Un caso emblematico è quello dei paesi che consolidano la propria indipendenza
politica attraverso lo sviluppo economico e tecnologico: è un compito ben più
prosaico e oscuro rispetto alla resistenza contro un mostruoso Golia militare e
politico, e ciò non affascina il seguace del romanticismo rivoluzionario[2].
Per quanto
riguarda l'«ascetismo universale», ne La lotta di classe denuncio
soprattutto il populismo, ossia la tendenza che individua nella miseria anche
il luogo dell'eccellenza morale. Questo non è mai stato il punto di vista di
Marx. Egli, infatti, se, da una parte, non idolatrò mai la ricchezza – al
contrario: rinunciò a una vita agiata per seguire la sua vocazione
rivoluzionaria – dall'altra men che meno idealizzò la miseria. In tal senso era
quantomai consapevole del fatto che proprio la povertà dei rapporti sociali e
materiali rende maggiormente difficile l'elaborazione di idee in qualche modo
più illuminate. E nel Manifesto del Partito Comunista criticò il «rozzo
egualitarismo» e l'«ascetismo universale» quali visioni del mondo che possono
essere proprie dei movimenti proletari solo nelle fasi iniziali del loro
sviluppo, ma che certamente dovranno essere superate da un movimento socialista
collocatosi sul piano scientifico. È necessario, perciò, distinguere Marx da
altri movimenti di protesta contro la società di classe. E, inoltre, va
sottolineato come un elemento essenziale della visione marxista si rifà alla
constatazione secondo cui il socialismo rappresenta un sistema sociale
nettamente superiore al capitalismo, non soltanto ché procede ad una più equa
redistribuzione della risorse, ma anche ché è in grado d'accrescere la
produzione stessa e con essa la ricchezza sociale, la quale, invece, viene
distrutta dal capitalismo, come dimostrano le ricorrenti crisi di
sovrapproduzione e come sta dimostrando la crisi scoppiata nel 2008.
6. La fine della guerra fredda ha decretato il formarsi di un
quadro radicalmente diverso rispetto ai paradigmi vigenti nella fase storica
apertasi dopo la fine della seconda guerra mondiale. A questo proposito, lei
ritiene che ciò abbia aperto uno spazio nuovo e amplissimo per l'«universalismo
imperiale». Quali sono i suoi lineamenti essenziali? E ad esso con quale
modalità si lega il «neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario»? Quale
ruolo giocano, in tutto ciò, le Organizzazioni non governative (ONG)?
Nella Seconda
Guerra Mondiale le grandi potenze europee e occidentali si erano scontrate a
partire da «valori» tra loro inconciliabili: quello che oggi chiamiamo
Occidente appariva lacerato. Con l'affermarsi di un'incontrastata egemonia
statunitense, il politeismo dei valori cedette il posto all'Occidente quale
custode di un monoteismo dei valori da universalizzare. Gli Stati Uniti, in
linea a ciò, nella fase finale della guerra fredda, sfruttarono il grave
indebolimento dei paesi socialisti e del movimento comunista sul piano
ideologico, politico e propagandistico: abbandonarono, da una parte, il
protezionismo economico e, dall'altra, quello politico-ideologico – e con esso
il culto dell'irriducibile peculiarità americana[3]
- al fine di riempire, con le coordinate dell'universalismo imperiale, lo
spazio nuovo e amplissimo apertosi.
L'universalismo
imperiale si è concretato nell'imperialismo del libero mercato e dei diritti
umani; attorno a questi ultimi si è venuta definendo una vera e propria
religione civile (manipolata), chiamata a glorificare l'Occidente e a ricoprire
di vergogna i suoi avversari. E, se, da una parte, non esiste una concordanza
nel definire questi valori – si pensi alle divergenze a proposito di questioni
quali l'aborto, il porto d'armi e, soprattutto, la pena di morte – va
sottolineato, dall'altra, come laddove tali valori sono effettivamente
definiti, come nel caso delle varie «libertà», è proprio l'Occidente il primo a
calpestarli[4].
E dato che
l'Occidente si ritiene interprete dei valori universali e dunque titolare
esclusivo del diritto ad esportarli, le guerre di aggressione possono essere
argomentate in base a tale schema, che comporta una sovranità dilatata e
imperiale. In forme nuove si riproduce la dicotomia propria dell'imperialismo –
nazioni elette e realmente fornite di sovranità versus popoli indegni di
costituirsi in Stato nazionale autonomo. Oggi, specificatamente, il «neocolonialismo
economico-tecnologico-giudiziario» si sostanzia in quattro elementi: esteso
controllo economico; superiorità tecnologico-militare; dominio sul fronte
multimediale; doppia giurisdizione, funzionale a garantire l'impunità
dell'aggressore.
E, tra le varie
istanze che si inseriscono in tali dinamiche, un ruolo significativo è svolto
dalle Organizzazioni non governative. Innumerevoli e variegate, esse offrono un
ampio spazio alle agenzie e ai servizi segreti delle grandi potenze; ma, se non
mancano casi di ONG rappresentanti una traduzione immediata di un progetto
imperiale, va detto che a svolgere un ruolo essenziale sono soprattutto
l'influenza e l'egemonia ideologica: si pensi al contributo fornito da non
poche ONG all'aizzamento di una nuova guerra fredda, sempre in agguato[5].
L'impatto egemonico si riscontra nitidamente nella gerarchia dei diritti umani
stessi: non c'è più spazio per i diritti sociali ed economici, sanciti dall'Onu
alla sua fondazione. Ciò è funzionale alla delegittimazione della rivoluzione
anticoloniale. Per i paesi di nuova indipendenza, infatti, la priorità non può
che essere la «libertà dalla paura» e la «libertà dal bisogno»: solo una
volta sbarazzatisi della preoccupazione di dover fronteggiare l'aggressione
e i tentativi di destabilizzazione, questi paesi, grazie allo sviluppo, possono
garantire ai cittadini il diritto alla vita e avanzare sulla via del governo
della legge e della democratizzazione dei rapporti sociali e delle istituzioni
politiche.
7. Ne La
lotta di classe (Laterza, 2013), tra le altre cose, si sviluppava
criticamente un concetto di centrale importanza, ossia l'«idealismo della
prassi». Di cosa si tratta?
Insistendo sulla
trasformazione del mondo, il pensiero rivoluzionario è esposto all'«idealismo
della prassi», in virtù del quale elementi quali il mercato, la nazione, la
religione, lo Stato tendono a smarrire «il carattere dell'essere»[6].
Essi risultano cioè plasmabili in modo agevole e illimitato dall'azione
politica; ma il confronto con la prassi effettuale non può che smentire una
tale presunzione e rimettere al centro l'oggettività dell'essere sociale, dato
che i fichtiani «vincoli delle cose in sé»[7]
continuano a essere spessi e resistenti.
Concretamente,
ogni grande movimento rivoluzionario è portato a pensare che la propria
vittoria sia in grado di porre fine a tutte le contraddizioni. In tal senso,
per esempio, immediatamente dopo la Rivoluzione d'Ottobre, alcuni pensarono che
il trionfo del socialismo fosse sinonimo del dileguare d'ogni confine statale e
d'ogni contraddizione nazionale e, persino, del dissolversi del mercato in
quanto tale. Circa quest'ultima istanza è utile rifarsi ai passaggi dei Quaderni
ove Gramsci sottolinea il concetto di «mercato determinato»: ivi dimostrò che
il «mercato» non è sinonimo di capitalismo, bensì assume declinazioni diverse
lungo il corso storico. In altri lavori, specialmente nel libro su Gramsci[8],
sottolineo come la sua grandezza stia nell'aver insistito su un punto
essenziale: dobbiamo sviluppare un'idea di emancipazione – quella comunista -
decisamente radicale, che tuttavia non coincida con la fine della storia. E in
linea a ciò non dobbiamo nemmeno pensare alla fine dello Stato; Marx stesso
talvolta parla di una sua estinzione, altre volte, invece, si riferisce alla
sua estinzione nell'attuale senso politico: ed è questa seconda variante
quella corretta. Lo stesso discorso vale per la questione delle nazionalità.
Esse non si dileguano col dileguare del sistema capitalistico; e si tenga conto
che Karl Kautsky e anche alcuni bolscevichi credevano che col superamento del
capitalismo sarebbe scomparsa persino la lingua russa, una sciocchezza contro
la quale, come noto, polemizzò anche Stalin (le identità linguistiche, in tal
senso, sono al tempo stesso identità nazionali).
[1] «Grazie alla
televisione, ai telefonini, ai computer e ai social media, l'indignazione
spontanea o artificialmente prodotta può contare su una diffusione di una
capillarità e pervasività senza precedenti, e di essa il paese più potente
anche sul piano della tecnologia della comunicazione può servirsi per
destabilizzare il paese nemico già dall'interno». «Potendo disporre di
strumenti che rendono impossibile distinguere la verità dalla manipolazione, la
Psywar ha acquisito un'importanza senza precedenti». Domenico Losurdo, La
sinistra assente, Carocci, Roma 2014,
p. 75 e p. 85
[2] Domenico Losurdo,
La sinistra assente, cit., p. 245
[3] «F. D. Roosvelt,
nel celebrare il “nostro sistema americano” e nel criticare Jefferson per
essersi lasciato troppo influenzare dalle “teorie dei rivoluzionari francesi”,
chiamava i suoi concittadini a opporsi non solo al comunismo ma anche a
“qualunque altro “ismo” forestiero». Domenico Losurdo, La sinistra assente,
cit., p. 141
[4] «Ogni volta che a
ragione o torto si è sentita in pericolo, la repubblica nordamericana ha
proceduto a un rafforzamento più o meno drastico del potere esecutivo e a un
restringimento più o meno pesante della libertà di associazione e di
espressione. Ciò vale per gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione
francese, per la guerra di secessione, la prima guerra mondiale, la Grande
Depressione, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, la situazione
venutasi a creare dopo l'attacco alle torri gemelle». Domenico Losurdo, La
sinistra assente, cit., p. 168
[5] «Nel 2008 e nel
2014 esse si sono impegnate, se non a sabotare, a delegittimare le Olimpiadi
estive di Pechino e quelle invernali di Sochi, accodandosi acriticamente alla
campagna scatenata dall'Occidente prima contro la Cina e poi contro la Russia».
Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 192
[6] György Lukács, Ontologia dell'essere sociale, trad. it. a
cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1976-81, p. 3
[7] Si veda Domenico
Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra
rivoluzione e reazione, Guerini-Istituto Italiano per gli Studi Filosofici,
Milano, cap. III, § 2
[8] Domenico Losurdo,
Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti, 1997
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