lunedì 2 novembre 2015

I problemi della sinistra oggi: un'intervista a #politicanuova



Domenico Losurdo: “Il movimento socialista è nato dall'incontro fra teoria scientifica e lotta di classe: da qui dobbiamo partire!”

#politicanuova intervista Domenico Losurdo, Professore emerito di Storia della Filosofia all'Università di Urbino, tra i maggiori intellettuali contemporanei, che recentemente ha pubblicato  “La sinistra assente” (Carocci, 2014), un'analisi a proposito dell'assenza, in Occidente, di una forza d'opposizione in grado di incidere nella realtà e d'offrire la prospettiva della trasformazione sociale.

A cura di Aris Della Fontana

1. Lei afferma che «la sinistra dilegua proprio nel momento in cui è chiamata a reagire ai processi in atto». Come si spiega questa contraddizione?

Quando parlo del dileguare della sinistra, mi riferisco all'Occidente. La sinistra dilegua, per esempio, dinanzi all'aggravarsi della situazione internazionale. Oggi stiamo assistendo a una serie di guerre neo-coloniali, particolarmente nel Medio Oriente: è un dato di fatto che viene riconosciuto persino da commentatori borghesi, ma che la sinistra occidentale, invece, tace. E oggi i pericoli di guerra si stanno aggravando: ne “La sinistra assente” cito un illustre analista quale Sergio Romano, secondo cui gli Stati Uniti hanno come obiettivo l'acquisizione di una sorta di monopolio sostanziale dell'arma nucleare; e ciò, all'occorrenza, anche al fine di poter scatenare un primo colpo nucleare impunito. Ci troviamo, dunque, dinanzi a una prospettiva decisamente allarmante. Ma la sinistra occidentale latita. Nel libro spiego le ragioni storiche di questa latitanza, ma fermarsi a ciò non basta. Di fronte all'aggravarsi dei conflitti sul piano internazionale, delle tendenze neo-colonialiste e della minaccia imperialista, s'impone la necessità d'una chiara risposta da parte della sinistra – anche sul piano ideologico - e con ciò una sua riorganizzazione. Ma purtroppo siamo ancora disgraziatamente lontani da tale momento.


2. Di fronte alla «crisi economica e politica» e ad un «deteriorarsi della situazione internazionale» che desta importante preoccupazione in particolare per i venti di guerra che spirano sempre più forti, si pone, per la sinistra, la questione delle tempistiche, e cioè della necessità di agire in rapporto a margini non eternamente posponibili? Se la sinistra non si attiva ora, in seguito sarà troppo tardi?

Per quanto concerne lo stato della situazione internazionale, ribadisco quanto sostenuto poco sopra. La sinistra è indubbiamente in ritardo. Questo di per sé non è un fatto nuovo. Prendere coscienza di una situazione oggettiva è un processo faticoso e quindi un certo ritardo è quasi la regola. Però oggi ci troviamo dinanzi a qualcosa di assolutamente inedito. In seguito al trionfo occidentale nella Guerra Fredda ha avuto luogo una demolizione sistematica della complessiva storia del movimento comunista. Ciò ha prodotto effetti devastanti sul fronte dell'incisività politica ed egemonica. Occorre dunque prima di tutto colmare tale ritardo. E, pur essendo un obbligo morale, dobbiamo essere consapevoli che si tratta di un'impresa estremamente complessa. Occorre sentirne l'urgenza, ma senza scoraggiarci per i ritardi, i quali in qualche modo sono inevitabili.


3. Attraverso il «monopolio delle idee e soprattutto delle emozioni» le classi dominanti hanno eseguito un “salto di qualità” nell'ambito del controllo del potere, e cioè dell'egemonia e della lotta di classe? Il concentrarsi, da parte delle prime, sulla suggestione spettacolare denota una lacunosità in fatto di argomenti sostanziali? E, se ciò fosse tale, esistono i margini, da parte della sinistra, per incidere proprio attraverso un solido apparato analitico? Quest'ultima operazione, ancorché valente, non rischierebbe di essere silenziata dai fini meccanismi della «società dello spettacolo»? In tal senso, come va impostata, a sinistra, la questione comunicativa?

La situazione odierna è più difficile che ai tempi di Marx. Egli constatò come la classe che detiene il monopolio della produzione materiale ha anche il monopolio della produzione intellettuale. Ma oggi c'è una novità: la borghesia detiene, oltre a quello delle idee, anche e soprattutto il monopolio delle emozioni; ed è grazie a quest'ultimo che che si scatenano le guerre e i colpi di stato dell'imperialismo.
E, per rispondere al quesito, mi pare esemplare proprio il caso del ricorso a quello che definisco il «terrorismo dell'indignazione»[1], ossia il fatto di suscitare scientemente una vera e propria ondata di indignazione in grado di giustificare la guerra: ciò denota anche una mancanza di argomenti razionali da parte delle classi dominanti. Questa particolare forma di terrorismo, come detto, ha avuto una funzione decisiva nello scatenamento delle ultime guerre. Però non è adeguato assolutizzarne gli effetti. Se per esempio confrontiamo la reazione che a sinistra si è verificata, poco tempo fa, per i fatti di Ucraina con quella avutasi, in un passato un po' meno recente, in occasione della guerra contro la Libia o di quella contro la Jugoslavia, si può osservare come il terrorismo dell'indignazione incontri qualche difficoltà in più.
A sinistra, infatti, c'è qualcuno che comincia a comprendere il funzionamento e le finalità di questo terrorismo dell'indignazione. E personalmente credo, con la mia ricerca, di poter contribuire all'allargarsi di questa importante presa di coscienza. Ovviamente è inutile farsi illusioni: non esiste un'arma magica che neutralizzi una volta per sempre il monopolio della diffusione delle emozioni e con ciò il terrorismo dell'indignazione. La priorità, in tal senso, è contrapporre ad esso un solido sistema di argomentazioni alternative, in grado di essere ampiamente condiviso. E, per conseguire tale finalità, il partito di tipo leninista rappresenta uno strumento essenziale.

4. Se c'è una «sinistra imperiale» che si cala nella realtà con argomenti e progetti pressoché indistinguibili dagli altri partiti borghesi, ce n'è anche un'altra che «non si appiattisce sull'esistente, rispetto al quale anzi vuole costruire un'alternativa radicale». Quest'ultima, però, è in grado di prendere le mosse «dai movimenti e dalle 'lotte reali'», e quindi di porre i presupposti per incidere politicamente? Esiste, in tal senso, il pericolo della «fuga nella teoresi» (Burgio), e cioè dell'elusione delle responsabilità politiche e organizzative conseguente all'oggettiva difficoltà di muoversi tra i corpi reali?

Credo sia sufficiente sottolineare un fatto storico di centrale importanza: il movimento che si è richiamato al socialismo è nato dall'incontro fra, da una parte, la teoria rivoluzionaria e scientifica e, dall'altra, il movimento concreto e cioè le lotte di classe reali. Ed è attorno a tale specifico incontro che oggi, ancora, dobbiamo puntare. Da questo punto di vista, concretamente, si tratta di non abbandonarsi né al teoreticismo astratto né all'empirismo. Questa, invero, è la fondazione e la storia del leninismo.

5. Ne La sinistra assente viene usata l'espressione «romanticismo rivoluzionario»; di esso si afferma il ruolo fortemente negativo allorquando pervade coloro i quali si confrontano con il processo d'indipendenza dei paesi ex coloniali. Ad esso possono essere collegati tendenze quali il «rozzo egualitarismo» e l'«ascetismo universale», trattate ne La lotta di classe (Laterza, 2013)?

Un'emblematica dimostrazione delle conseguenze del romanticismo rivoluzionario si ha nell'atteggiamento che taluni hanno di fronte alla figura di Ernesto Che Guevara. Egli suscita emozioni ed entusiasmo allorché si pensa al guerrigliero rivoluzionario – e ben si comprende, sia chiaro, questa intensa partecipazione. E, però, se riduciamo Che Guevara a questa raffigurazione, ne dimidiamo il profilo, poiché egli, oltre ad essere stato uno dei protagonisti della lotta armata che rovesciò la dittatura di Fulgencio Batista, è stato anche il teorico della lotta di Cuba contro l'aggressione economica - espressione non a caso da egli coniata.
Il romanticismo rivoluzionario è la dinamica nell'ambito della quale, da un lato, ci si commuove e ci si indigna allorché è in atto una lotta armata e, dall'altro, invece, si è incapaci di concepire che tale lotta armata, ai giorni nostri, ha la sua continuazione più spiccata nella lotta finalizzata alla liberazione dalla dipendenza economica e tecnologica e cioè nell'emancipazione dal neo-colonialismo. Cito spesso un passaggio di Empire (2000), lo scritto di Michael Hardt e Antonio Negri. I due autori esprimono una solidarietà nei confronti della Palestina che, tuttavia, si verrebbe a dileguare laddove quest'ultima divenisse uno Stato nazionale. Una solidarietà, dunque, che si attiva esclusivamente nei confronti d'un popolo palestinese che subisce disfatte; invece, nella misura in cui esso conseguisse potenziali vittorie e, in legame a ciò, si edificasse quale Stato nazionale indipendente, tale vicinanza si dileguerebbe. Il seguace del romanticismo rivoluzionario s'emoziona per gli sconfitti, ma non riesce a provare sentimenti simpatetici allorché lo sconfitto tenta di andare oltre la situazione che lo caratterizza. Un caso emblematico è quello dei paesi che consolidano la propria indipendenza politica attraverso lo sviluppo economico e tecnologico: è un compito ben più prosaico e oscuro rispetto alla resistenza contro un mostruoso Golia militare e politico, e ciò non affascina il seguace del romanticismo rivoluzionario[2]. 
Per quanto riguarda l'«ascetismo universale», ne La lotta di classe denuncio soprattutto il populismo, ossia la tendenza che individua nella miseria anche il luogo dell'eccellenza morale. Questo non è mai stato il punto di vista di Marx. Egli, infatti, se, da una parte, non idolatrò mai la ricchezza – al contrario: rinunciò a una vita agiata per seguire la sua vocazione rivoluzionaria – dall'altra men che meno idealizzò la miseria. In tal senso era quantomai consapevole del fatto che proprio la povertà dei rapporti sociali e materiali rende maggiormente difficile l'elaborazione di idee in qualche modo più illuminate. E nel Manifesto del Partito Comunista criticò il «rozzo egualitarismo» e l'«ascetismo universale» quali visioni del mondo che possono essere proprie dei movimenti proletari solo nelle fasi iniziali del loro sviluppo, ma che certamente dovranno essere superate da un movimento socialista collocatosi sul piano scientifico. È necessario, perciò, distinguere Marx da altri movimenti di protesta contro la società di classe. E, inoltre, va sottolineato come un elemento essenziale della visione marxista si rifà alla constatazione secondo cui il socialismo rappresenta un sistema sociale nettamente superiore al capitalismo, non soltanto ché procede ad una più equa redistribuzione della risorse, ma anche ché è in grado d'accrescere la produzione stessa e con essa la ricchezza sociale, la quale, invece, viene distrutta dal capitalismo, come dimostrano le ricorrenti crisi di sovrapproduzione e come sta dimostrando la crisi scoppiata nel 2008.

6. La fine della guerra fredda ha decretato il formarsi di un quadro radicalmente diverso rispetto ai paradigmi vigenti nella fase storica apertasi dopo la fine della seconda guerra mondiale. A questo proposito, lei ritiene che ciò abbia aperto uno spazio nuovo e amplissimo per l'«universalismo imperiale». Quali sono i suoi lineamenti essenziali? E ad esso con quale modalità si lega il «neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario»? Quale ruolo giocano, in tutto ciò, le Organizzazioni non governative (ONG)?


Nella Seconda Guerra Mondiale le grandi potenze europee e occidentali si erano scontrate a partire da «valori» tra loro inconciliabili: quello che oggi chiamiamo Occidente appariva lacerato. Con l'affermarsi di un'incontrastata egemonia statunitense, il politeismo dei valori cedette il posto all'Occidente quale custode di un monoteismo dei valori da universalizzare. Gli Stati Uniti, in linea a ciò, nella fase finale della guerra fredda, sfruttarono il grave indebolimento dei paesi socialisti e del movimento comunista sul piano ideologico, politico e propagandistico: abbandonarono, da una parte, il protezionismo economico e, dall'altra, quello politico-ideologico – e con esso il culto dell'irriducibile peculiarità americana[3] - al fine di riempire, con le coordinate dell'universalismo imperiale, lo spazio nuovo e amplissimo apertosi.
L'universalismo imperiale si è concretato nell'imperialismo del libero mercato e dei diritti umani; attorno a questi ultimi si è venuta definendo una vera e propria religione civile (manipolata), chiamata a glorificare l'Occidente e a ricoprire di vergogna i suoi avversari. E, se, da una parte, non esiste una concordanza nel definire questi valori – si pensi alle divergenze a proposito di questioni quali l'aborto, il porto d'armi e, soprattutto, la pena di morte – va sottolineato, dall'altra, come laddove tali valori sono effettivamente definiti, come nel caso delle varie «libertà», è proprio l'Occidente il primo a calpestarli[4].
E dato che l'Occidente si ritiene interprete dei valori universali e dunque titolare esclusivo del diritto ad esportarli, le guerre di aggressione possono essere argomentate in base a tale schema, che comporta una sovranità dilatata e imperiale. In forme nuove si riproduce la dicotomia propria dell'imperialismo – nazioni elette e realmente fornite di sovranità versus popoli indegni di costituirsi in Stato nazionale autonomo. Oggi, specificatamente, il «neocolonialismo economico-tecnologico-giudiziario» si sostanzia in quattro elementi: esteso controllo economico; superiorità tecnologico-militare; dominio sul fronte multimediale; doppia giurisdizione, funzionale a garantire l'impunità dell'aggressore.
E, tra le varie istanze che si inseriscono in tali dinamiche, un ruolo significativo è svolto dalle Organizzazioni non governative. Innumerevoli e variegate, esse offrono un ampio spazio alle agenzie e ai servizi segreti delle grandi potenze; ma, se non mancano casi di ONG rappresentanti una traduzione immediata di un progetto imperiale, va detto che a svolgere un ruolo essenziale sono soprattutto l'influenza e l'egemonia ideologica: si pensi al contributo fornito da non poche ONG all'aizzamento di una nuova guerra fredda, sempre in agguato[5]. L'impatto egemonico si riscontra nitidamente nella gerarchia dei diritti umani stessi: non c'è più spazio per i diritti sociali ed economici, sanciti dall'Onu alla sua fondazione. Ciò è funzionale alla delegittimazione della rivoluzione anticoloniale. Per i paesi di nuova indipendenza, infatti, la priorità non può che essere la «libertà dalla paura» e la «libertà dal bisogno»: solo una volta sbarazzatisi della preoccupazione di dover fronteggiare l'aggressione e i tentativi di destabilizzazione, questi paesi, grazie allo sviluppo, possono garantire ai cittadini il diritto alla vita e avanzare sulla via del governo della legge e della democratizzazione dei rapporti sociali e delle istituzioni politiche.


7. Ne La lotta di classe (Laterza, 2013), tra le altre cose, si sviluppava criticamente un concetto di centrale importanza, ossia l'«idealismo della prassi». Di cosa si tratta?

Insistendo sulla trasformazione del mondo, il pensiero rivoluzionario è esposto all'«idealismo della prassi», in virtù del quale elementi quali il mercato, la nazione, la religione, lo Stato tendono a smarrire «il carattere dell'essere»[6]. Essi risultano cioè plasmabili in modo agevole e illimitato dall'azione politica; ma il confronto con la prassi effettuale non può che smentire una tale presunzione e rimettere al centro l'oggettività dell'essere sociale, dato che i fichtiani «vincoli delle cose in sé»[7] continuano a essere spessi e resistenti.
Concretamente, ogni grande movimento rivoluzionario è portato a pensare che la propria vittoria sia in grado di porre fine a tutte le contraddizioni. In tal senso, per esempio, immediatamente dopo la Rivoluzione d'Ottobre, alcuni pensarono che il trionfo del socialismo fosse sinonimo del dileguare d'ogni confine statale e d'ogni contraddizione nazionale e, persino, del dissolversi del mercato in quanto tale. Circa quest'ultima istanza è utile rifarsi ai passaggi dei Quaderni ove Gramsci sottolinea il concetto di «mercato determinato»: ivi dimostrò che il «mercato» non è sinonimo di capitalismo, bensì assume declinazioni diverse lungo il corso storico. In altri lavori, specialmente nel libro su Gramsci[8], sottolineo come la sua grandezza stia nell'aver insistito su un punto essenziale: dobbiamo sviluppare un'idea di emancipazione – quella comunista - decisamente radicale, che tuttavia non coincida con la fine della storia. E in linea a ciò non dobbiamo nemmeno pensare alla fine dello Stato; Marx stesso talvolta parla di una sua estinzione, altre volte, invece, si riferisce alla sua estinzione nell'attuale senso politico: ed è questa seconda variante quella corretta. Lo stesso discorso vale per la questione delle nazionalità. Esse non si dileguano col dileguare del sistema capitalistico; e si tenga conto che Karl Kautsky e anche alcuni bolscevichi credevano che col superamento del capitalismo sarebbe scomparsa persino la lingua russa, una sciocchezza contro la quale, come noto, polemizzò anche Stalin (le identità linguistiche, in tal senso, sono al tempo stesso identità nazionali).



[1]             «Grazie alla televisione, ai telefonini, ai computer e ai social media, l'indignazione spontanea o artificialmente prodotta può contare su una diffusione di una capillarità e pervasività senza precedenti, e di essa il paese più potente anche sul piano della tecnologia della comunicazione può servirsi per destabilizzare il paese nemico già dall'interno». «Potendo disporre di strumenti che rendono impossibile distinguere la verità dalla manipolazione, la Psywar ha acquisito un'importanza senza precedenti». Domenico Losurdo, La sinistra assente, Carocci, Roma 2014,  p. 75 e p. 85
[2]             Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 245
[3]             «F. D. Roosvelt, nel celebrare il “nostro sistema americano” e nel criticare Jefferson per essersi lasciato troppo influenzare dalle “teorie dei rivoluzionari francesi”, chiamava i suoi concittadini a opporsi non solo al comunismo ma anche a “qualunque altro “ismo” forestiero». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 141
[4]             «Ogni volta che a ragione o torto si è sentita in pericolo, la repubblica nordamericana ha proceduto a un rafforzamento più o meno drastico del potere esecutivo e a un restringimento più o meno pesante della libertà di associazione e di espressione. Ciò vale per gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione francese, per la guerra di secessione, la prima guerra mondiale, la Grande Depressione, la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, la situazione venutasi a creare dopo l'attacco alle torri gemelle». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 168
[5]             «Nel 2008 e nel 2014 esse si sono impegnate, se non a sabotare, a delegittimare le Olimpiadi estive di Pechino e quelle invernali di Sochi, accodandosi acriticamente alla campagna scatenata dall'Occidente prima contro la Cina e poi contro la Russia». Domenico Losurdo, La sinistra assente, cit., p. 192
[6]             György Lukács, Ontologia dell'essere sociale, trad. it. a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1976-81, p. 3
[7]             Si veda Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini-Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano, cap. III, § 2
[8]             Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico», Gamberetti, 1997

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