Questo saggio è stato pubblicato in «Belfagor. Rassegna di varia umanità», diretta
da Carlo Ferdinando Russo, Casa Editrice Leo S. Olschki, Firenze, marzo 2012,
pp. 151-172. Come è noto, Belfagor ha chiuso i battenti. Con questo omaggio ringrazio l'amico Carlo Ferdinando Russo e tutta la redazione per l'ospitalità che spesso mi è stata concessa [DL].
1. Dalla Restaurazione a Hannah Arendt
Come spiegare la grande crisi storica che inizia con la rivoluzione
francese e che, a distanza di un quarto di secolo, si conclude
(provvisoriamente) con il ritorno dei Borboni? Friedrich Schlegel e la cultura
della Restaurazione non si stancano di denunciare la «malattia politica» e il
«contagioso malanno dei popoli» che infuriano a partire dal 1789; ma è
Metternich in persona a mettere in guardia contro la «peste» ovvero il «cancro»
che devasta le menti. Per essere più esatti - incalza un altro ideologo della
Restaurazione, e cioè Franz von Baader - siamo in presenza di una «follia
satanicamente invasata»; al rovesciamento dell’Antico regime ha fatto seguito
non la democrazia, bensì la «demonocrazia», il potere di Satana.
Più tardi, dopo l’ondata rivoluzionaria del 1848 e soprattutto dopo
la rivolta operaia di giugno, Tocqueville radicalizza la lettura in chiave
psicopatologica: a spiegare «la malattia della rivoluzione francese» è
l’infuriare di un «virus di una specie nuova e sconosciuta». Nei Souvenirs, con riferimento al momento in cui comincia a montare
l’agitazione destinata a sfociare nelle giornate di giugno, dopo aver
sottolineato già per conto proprio la natura «folle» di Barbès, il liberale
francese fa dire a un «medico di merito che dirigeva allora uno dei principali
ospedali per pazzi di Parigi»:
«Che sventura e come è
strano pensare che sono dei pazzi, dei veri pazzi che ci hanno portato a
questo. Io li ho frequentati tutti e li ho avuto tutti in trattamento: Blanqui
è un pazzo, Barbès è un pazzo, Sobrier è un pazzo, ma soprattutto è pazzo
Huber, tutti pazzi, signore, che dovrebbero essere nella mia Salpêtrière e non qui».
Tocqueville aggiunge:
«Ho
pensato sempre che in tutte le rivoluzioni, ma soprattutto nelle rivoluzioni
democratiche, i pazzi, ma non quelli cui si dà tale appellativo per scherzo, ma
i pazzi veri, hanno rappresentato un parte molto importante in politica».
Non manca neppure il riferimento a forze in qualche modo infernali:
nelle giornate di giugno, nei quartieri popolari ridotti alla fame e alla
disperazione dallo scioglimento degli ateliers
nationaux, che si apprestano a resistere e che chiamano gli abitanti alla
lotta, facendo risuonare il segnale di adunata generale, il nobile liberale
sente risuonare «una musica diabolica». Gli abitanti ascoltano e si preparano
con «aria sinistra» e smarrendo i loro tratti umani. Ecco agitarsi «una
vecchia» che rassomiglia a una strega: «L’espressione schifosa e terribile
della sua faccia mi fece orrore, con tanta violenza vi erano scolpiti il furore
delle passioni demagogiche e la rabbia delle guerre civili».
All’indomani della Comune di Parigi, con Taine l’approccio in
chiave psicopatologica celebra i suoi trionfi:
«Se è vero,
infatti, che esistono malattie epidemiche per il corpo, è altrettanto vero che
ne esistono anche per la mente, e tale è allora la malattia rivoluzionaria. La
si ritrova contemporaneamente su tutti i punti del territorio, e ogni punto
infettato contribuisce a infettarne altri. In ogni città o borgo, il club è un
focolaio di infezione che aggredisce le parti sane, e ogni centro aggredito
diffonde i suoi esempi come altrettanti miasmi. Ovunque la stessa febbre, lo
stesso delirio e le stesse convulsioni indicano la presenza dello stesso virus,
e questo virus è il dogma giacobino».
Non solo la Comune ma l’intero ciclo rivoluzionario francese è messo sul
conto del «virus » e della generale «alterazione dell’equilibrio
mentale» e soprattutto del «male incurabile della mente giacobina». Diamo uno
sguardo a questo o a quel protagonista della rivoluzione: «un medico
riconoscerebbe immediatamente uno di quei pazzi lucidi che non vengono
rinchiusi, e che pertanto sono ancora più pericolosi: definirebbe anche con
termine tecnico la malattia: è il delirio di grandezza, notissimo nei
manicomi». In effetti Marat si comporta «non diversamente dai suoi colleghi di
Bicêtre». Come
si vede, dalla
Salpétrière siamo passati alla Bicêtre, ma la spiegazione delle crisi
rivoluzionarie continua a essere ricercata nei manicomi.
Anche in questo caso la follia (rivoluzionaria e illuministica) ha
qualcosa di diabolico. Se Voltaire è un «demone incarnato» (démon
incarné), Saint-Just è il protagonista di una sorta di rito satanico:
«Annientare e
sopraffare diventano un’intensa voluttà assaporata dall’orgoglio più intimo, il
fumo dell’olocausto che il despota brucia sul proprio altare; in questo
sacrificio quotidiano egli è insieme l’idolo e l’officiante, e offre a se
stesso le vittime per dimostrare la propria divinità».
Paragonabile al ciclo rivoluzionario francese è quello che inizia in
Russia nel 1905. Ed ecco che la cultura dominante riattualizza la «diagnosi»
che già conosciamo. Il «virus di una specie nuova e sconosciuta» conosce ora
una migrazione dalla Francia alla Russia: è così che, rinviando in modo
esplicito al testo già citato di Tocqueville, argomentano François Furet e il
sovietologo statunitense Richard Pipes.
La lettura in chiave psicopatologica delle grandi crisi
storiche è ai giorni nostri così diffusa da fare avvertire la sua presenza
anche nelle categorie centrali del discorso politico. Adorno vede nel
«totalitarismo psicologico» il fondamento del totalitarismo propriamente detto:
ci sono individui che «hanno a disposizione solo un io debole e hanno pertanto
bisogno, come surrogato, dell’identificazione con un grande collettivo e della
sua copertura». Non solo dileguano la situazione oggettiva, la geopolitica e la
storia, ma non giocano alcun ruolo neppure le ideologie: «I caratteri soggetti
all’autorità vengono valutati in modo del tutto errato allorché sono costruiti
a partire da una determinata ideologia politico-economica».
La deriva psicologistica finisce con l’emergere anche in
Arendt. Ricorrente è in lei la denuncia del «disprezzo totalitario per la
realtà e la fattualità», per la «follia» di cui il totalitarismo dà prova.
Anzi, immergendoci nella descrizione cui Le
origini del totalitarismo procedono della «società totalitaria» si ha
l’impressione di entrare in un manicomio, nella Salpétrière o Bicêtre evocate
rispettivamente da Tocqueville e Taine. Non è solo il fatto che «la punizione
viene inflitta senza alcuna relazione con un reato». No, c’è molto di più:
«Lo
sfruttamento praticato senza un profitto e il lavoro compiuto senza un
prodotto, è un luogo dove quotidianamente si crea l’insensatezza […] Mentre
distrugge tutte le connessioni di senso con cui normalmente si calcola e si
agisce, il regime impone una specie di supersenso […] Il buon senso educato al
ragionamento utilitario è impotente contro il supersenso ideologico appena il
regime procede a creare da questo un mondo realmente funzionante».
In realtà, il Terzo Reich coltiva un progetto senza dubbio
criminale ma lucido. Hitler cerca le «Indie tedesche» e il suo Far West in
Europa orientale, dove si propone di edificare un impero coloniale di tipo
continentale: gli «indigeni» slavi sono così ridotti per un verso alla
condizione di «indiani» (da decimare al fine di consentire la germanizzazione
dei territori conquistati), per un altro verso alla condizione di «negri»
(destinati a lavorare come schiavi o semischiavi al servizio della «razza dei
signori»); mentre l’annientamento attende gli ebrei, che alimentano il
bolscevismo e l’insensata rivolta delle «razze inferiori» contro la civiltà e
la gerarchia naturale. Giunto al potere pressappoco nel momento in cui vede la
luce Mein Kampf, Stalin è impegnato a
vanificare il progetto hitleriano, e l’irreggimentazione totalitaria della
popolazione russa ha pur qualche rapporto con i preparativi bellici e con lo
sforzo ossessivo di sviluppare al massimo e il più rapidamente possibile
l’apparato produttivo e militare. Di tutto ciò non c’è traccia nella terza
sezione delle Origini del totalitarismo.
E, una volta che si è fatta totale astrazione dagli interessi reali e dai
conflitti reali, in ultima analisi dalla storia, è chiaro che ogni grande crisi
storica appare come un’esplosione di follia.
Si rivela in qualche modo tautologico il discorso di Arendt, che
comunque insiste nella sua tesi centrale: il totalitarismo non è il
perseguimento con metodi brutali e senza alcun scrupolo morale di obiettivi
comunque logicamente comprensibili. No, nel totalitarismo abbiamo a che fare
con dei «paranoici»: «L’aggressività del totalitarismo non deriva da sete di
potenza; e se esso cerca febbrilmente di espandersi, non è né per smania di
espansione né per profitto, ma solo per ragioni ideologiche: per dimostrare su
scala mondiale che la propria ideologia aveva ragione, per edificare un mondo
fittizio coerente non più disturbato dalla fattualità». In altre parole, il
totalitarismo è la follia che vuole la follia.
Siamo ricondotti alla cultura della Restaurazione, come
emerge da un ulteriore elemento. In relazione ai «regimi totalitari» (non solo
quello hitleriano ma anche quello staliniano), Arendt fa intervenire la
categoria di «male assoluto», che non può essere «compreso e spiegato coi malvagi
motivi dell’interesse egoistico, dell’avidità, dell’invidia, del risentimento,
della smania di potere, della vigliaccheria» e che dunque non può essere
spiegato con la ragione. Il Satana di cui parla la cultura della Restaurazione
è qui divenuto il mysterium iniquitatis.
La fuga dalla storia e dalla ragione e il rifugio nel mistero restano immutati
o risultano ulteriormente accentuati. Il rinvio a Satana voleva esser pur
sempre una spiegazione, mentre, secondo Arendt: «Non abbiamo nulla a cui
ricorrere per comprendere un fenomeno che ci sta di fronte con la sua mostruosa
realtà e demolisce tutti i criteri di giudizio da noi conosciuti».
2. Incapacità di
auto-riflessione e dogmatismo
Ma perché l’approccio in chiave psicopatologica è da considerare errato e
fuorviante? Vediamo quello che avviene negli Stati Uniti alla vigilia della
Guerra di secessione, alla vigilia cioè del tragico conflitto che finisce con
lo sfociare in una rivoluzione abolizionista. L’ideologia del Sud schiavista
paragona gli abolizionisti ai giacobini: i primi sono affetti da follia non
meno dei secondi. Ma ora interviene una novità. Il numero degli schiavi
fuggitivi aumenta, e
ciò non
solo allarma ma anche stupisce gli ideologi della schiavitù e della white supremacy: com’è possibile che
persone ‘normali’ si sottraggano ad una società così bene ordinata e alla
gerarchia della natura? Non c’è dubbio, siamo in presenza di una turba
psichica, di un morbo. Di cosa propriamente si tratta? Nel 1851, Samuel
Cartwright, chirurgo e psicologo della Louisiana, ritiene finalmente di poter
giungere a una spiegazione che egli comunica ai suoi lettori dalle colonne di
un’autorevole rivista scientifica, il «New Orleans Medical and Surgical
Journal». Prendendo le mosse dal fatto che nel greco classico drapeths è lo
schiavo fuggitivo, lo scienziato conclude trionfalmente che la turba psichica,
il morbo che spinge gli schiavi neri alla fuga è per l’appunto la
«drapetomania». Altri ideologi constatano che gli schiavi non obbediscono più agli
ordini del padroni con la stessa prontezza di un tempo. Interviene di nuovo la
diagnosi psicopatologica: il morbo in questione è ora la «disestesia», e cioè
l’incapacità degli schiavi a comprendere e a eseguire con prontezza gli ordini
del padrone.
Nel diciannovesimo secolo vediamo svilupparsi un’altra rivoluzione,
quella femminista. E di nuovo ci imbattiamo nella denuncia della follia e della
degenerazione che sarebbero a fondamento di questa novità inaudita. E’ un
grande filosofo, Friedrich Nietzsche, a parlare delle protagoniste di questa
rivoluzione come di donne malriuscite che misconoscono la loro natura di donne
e sono persino incapaci di generare: «”Emancipazione della donna” - questo è
l’odio istintivo della donna malriuscita, cioè di quella che non può procreare,
per la donna benriuscita». La polemica contro il movimento femminista è così
aspra da stimolare dichiarazioni di un disarmante filisteismo. Le
«“emancipate”» sarebbero le «femmine minorate» ovvero «quelle a cui manca la
stoffa per fare bambini» (Ecce Homo,
Perché scrivo libri così buoni, 5).
Si possono trarre due conclusioni: in primo luogo è da
notare che, storicamente,
non c’è stata sfida all’oppressione che non sia stata tacciata di follia, di
degenerazione, di stravolgimento della sanità e della normalità. In secondo
luogo: l’approccio
psicopatologico sembra presupporre una linea di demarcazione netta e univoca
tra normalità e stato morboso. Non è così. I diagnostici della drapetomania e
della disestesia degli schiavi fuggiaschi o indocili ovvero della degenerazione
delle donne emancipate potrebbero essere essi stessi sottoposti ad analisi e
rivelare sindromi preoccupanti, a cominciare dall’incapacità di orientarsi
nella realtà. In altre parole, l’approccio psicopatologico si rivela incapace
di auto-riflessione ed è quindi affetto da dogmatismo.
Ciò vale anche per Tocqueville. A dimostrazione della follia della
«razza dei rivoluzionari che sembra nuova nel mondo» e che è all’opera in
Francia, egli osserva che essa «non solo pratica la violenza, il disprezzo dei
diritti individuali e l’oppressione delle minoranze, ma afferma anche - ed è
qui la novità - che così deve essere». Ma vediamo ora in che modo il liberale
francese celebra la prima guerra dell’oppio :
«Ecco dunque infine la mobilità
dell'Europa alle prese con l'immobilità cinese! E' un grande avvenimento,
soprattutto se si pensa che esso non è che il seguito, l'ultima tappa di una
moltitudine di avvenimenti della medesima natura che spingono gradualmente la
razza europea al di fuori dei suoi confini e sottomettono successivamente al
suo impero o alla sua influenza tutte le altre razze [...]; è l'asservimento
delle quattro parti del mondo ad opera della quinta. E' bene dunque non essere
troppo maldicenti nei confronti del nostro secolo e di noi stessi; gli uomini
sono piccoli, ma gli avvenimenti sono grandi».
E che dire poi della condotta da Tocqueville suggerita
all’esercito francese al fine di condurre vittoriosamente a termine la guerra
di conquista dell’Algeria?
«Distruggere tutto
ciò che rassomiglia a un’aggregazione permanente di popolazione o, in altre
parole, ad una città. Credo sia della più alta importanza non lasciar
sussistere o sorgere alcuna città nelle regioni controllate da Abd-el-Kader»
(il leader della resistenza).
In queste due dichiarazioni risuona quella celebrazione
della violenza e della legge del più forte
rimproverata alla «razza dei rivoluzionari» all’opera in Francia. Ancora una
volta, i fautori dell’approccio psicopatologico procedono in modo dogmatico:
non applicano a se stessi i criteri che fanno valere per gli altri.
Si potrebbe obiettare con Furet che il carattere patologico della
violenza giacobina (e bolscevica) risiede nel fatto che essa divora i propri
figli. Sennonché, la dialettica di Saturno è ben presente nella Riforma
protestante e nella prima rivoluzione inglese e si manifesta altresì, con
modalità peculiari, anche nella rivoluzione americana. In occasione della
Guerra di secessione, entrambi gli schieramenti si richiamano alla lotta per
l’indipendenza condotta congiuntamente contro la Corona inglese. Gli
abolizionisti si rifanno al principio proclamato dalla Dichiarazione di
indipendenza in base al quale «tutti gli uomini sono stati creati eguali» e
all’attacco solenne della Costituzione di Filadelfia in cui il «popolo degli
Stati Uniti» dichiara di voler ulteriormente «perfezionare l'Unione». La
pubblicistica della Confederazione rivendica l'eredità della lotta dei patrioti
contro un oppressivo potere centrale, sottolinea la centralità del tema dei
diritti di ogni singolo Stato nel processo di fondazione e nella tradizione
giuridica del paese, fa notare che Washington, Jefferson, Monroe erano tutti
proprietari di schiavi. Entrambi gli schieramenti contrapposti dichiarano di
muoversi sul solco tracciato dai Padri Fondatori, ma ciò non evita anzi
inasprisce ulteriormente lo scontro. Non c'è dubbio: anche in questo caso
Saturno divora i suoi figli.
Vale anche la pena di notare che i coloni americani protagonisti della
guerra di indipendenza contro il governo di Londra sono definiti dai loro
contemporanei inglesi, con un giudizio di valore positivo o negativo, quali «i
dissidenti del dissenso». E se Burke denuncia la «malattia» francese già nella
primissima fase della rivoluzione, Mallet du Pan chiama in causa per questa
rivoluzione l’«inoculazione americana» (inoculation
américaine). Come si vede, il rinvio alla dialettica di Saturno e alla
psicopatologia al fine di spiegare le rivoluzioni non ha atteso il giacobinismo
per venire alla luce!
3. Oscillazioni e scelte arbitrarie
Del resto, la diagnosi
psicopatologica si caratterizza per il suo carattere arbitrario. Lo si può
constatare persino nei grandi autori. Nel 1950, nel pubblicare i suoi studi
sulla «personalità autoritaria», Adorno sottolinea «la correlazione tra anti-semitismo
e anti-comunismo» e poi aggiunge: «Durante gli ultimi anni tutto il meccanismo
di propaganda in America è stato dedicato a sviluppare l’anti-comunismo nel
senso di un “terrore” irrazionale». In questo momento, a essere affetti da
turbe psichiche sono gli anticomunisti. Più tardi, come abbiamo già visto,
Adorno inserisce invece i comunisti, assieme ai fascisti, tra le personalità
intrinsecamente autoritarie e inclini al totalitarismo!
Con un’analoga oscillazione, nel 1945 Arendt scrive che l’Urss
diretta da Stalin si distingue per il «modo, completamente nuovo e riuscito, di
affrontare e comporre i conflitti di nazionalità, di organizzare popolazioni
differenti sulla base dell'eguaglianza nazionale»; è qualcosa «cui ogni
movimento politico e nazionale dovrebbe prestare attenzione». In questo
momento, a costituire un punto di riferimento è, assieme all’Unione sovietico,
il leader che la dirige e che dimostra una personalità matura e equilibrata.
Qualche anno dopo, nelle Origini del
totalitarismo - nel frattempo è scoppiata la guerra fredda - Stalin è
considerato affetto da paranoia totalitaria.
In che modo si manifesta questo morbo sciagurato? In preda
all’ossessione del «nemico oggettivo», Stalin è spinto secondo Arendt a
ricercare sempre nuovi bersagli per la sua macchina repressiva: dopo «i
discendenti delle vecchie classi dominanti» è la volta dei kulaki, dei
traditori all’interno del partito, dei «tedeschi del Volga» ecc.. Per rendersi
conto della futilità di questo schema, basta riflettere sul fatto che esso
potrebbe essere applicato senza difficoltà alla storia degli Stati Uniti: alla
fine dell’Ottocento, essi partecipano alla celebrazione della comunità delle
nazioni o delle razze germaniche (Usa, Gran Bretagna e Germania) che sono
all’avanguardia della civiltà; a partire dall’intervento nella prima guerra
mondiale e per decenni, i tedeschi (e gli americani di origine tedesca)
diventano il nemico per eccellenza; è il momento della Grande alleanza con
l’Unione sovietica che, però, dopo il crollo del Terzo Reich diviene il nemico
in quanto tale, sicché, ad essere bersaglio della persecuzione non sono più gli
americani di origine tedesca (o giapponese), bensì gli americani sospettati di
simpatizzare col comunismo; almeno nell’ultima fase della guerra fredda,
Washington può avvalersi della collaborazione da un lato della Cina, dall’altro
degli islamici «freedom fighters» che alimentano la resistenza antisovietica in
Afghanistan; sennonché, con la disfatta dell’Impero del Male, a rappresentare
la nuova incarnazione del Male sono gli ex-alleati: i «freedom fighters» (e i
loro simpatizzanti in territorio statunitense e in ogni angolo del mondo)
prendono la strada di Guantanamo o subiscono l’esecuzione extra-giudiziaria a
partire da droni che, volteggiando nel cielo, li spiano incessantemente e non
danno loro scampo. Al tempo stesso, il formidabile dispositivo militare
statunitense, che per decenni ha contenuto e minacciato l’Unione sovietica,
viene largamente riposizionato in Asia, al fine di prendere di mira la Cina,
l’ex-alleata o l’ex-quasi-alleata dell’ultima fase della guerra fredda.
Per quanto poi riguarda l’ossessione del «nemico oggettivo»,
essa si fa avvertire anche in Gran Bretagna e negli Usa: la repressione si
abbatte sui simpatizzanti e potenziali collaboratori del nemico e il sospetto
regna sovrano. Certo l’ossessione è più contenuta, in conseguenza sia della
tradizione liberale alle spalle dei due paesi, sia soprattutto della loro
favorevole situazione geopolitica. Ma conosciamo il modo di procedere di
Arendt: una volta che si faccia totale astrazione dalla storia e della
geopolitica, bollare un determinato comportamento quale espressione di follia è
la cosa più facile di questo mondo. E’ la cosa più facile e anche più
gratificante: dalla condanna della follia non solo di singole personalità ma di
interi decenni di storia emerge indiretta ma tanto più forte la celebrazione
della propria saggezza.
Vale anche la pena di notare che la diagnosi psicopatologica prende
regolarmente di mira i campioni della rivoluzione, mai della guerra. Folli sono
Robespierre e i giacobini, ma non i girondini fautori della guerra, le cui
conseguenze devastanti per la libertà civile e politica sono denunciate in
anticipo e con grande lungimiranza per l’appunto da Robespierre. Folli sono i
bolscevichi che invocano la rivoluzione in modo da porre fine alla carneficina
della prima guerra mondiale, non coloro che, pur di prolungare la
partecipazione della Russia a tale carneficina, non esitano a sacrificare
milioni di persone e a provocare nel paese una crisi politica, economica e
sociale di spaventose proporzioni. Anzi, la prima guerra mondiale viene
salutata non solo in Russia ma anche e soprattutto in Occidente come un momento
di esaltante rigenerazione spirituale, e in questa opera di celebrazione e
trasfigurazione si impegnano i più grandi intellettuali del tempo! Basti
pensare a Weber, che celebra la guerra «grande e meravigliosa» o a Husserl,
secondo il quale «idee e ideali sono di nuovo in marcia e trovano di nuovo un
cuore aperto ad accoglierli», o a Freud, il quale formula la tesi secondo cui
«la vita s’impoverisce, perde d’interesse, se non è lecito rischiare quella
che, nel suo gioco, è la massima posta, e cioè la vita stessa». Dobbiamo
considerare quale espressione di follia la trasfigurazione di un’orribile
carneficina in una sorta di edificante esercizio spirituale?
Nell’impegnarsi a descrivere Il Novecento come un gigantesco manicomio
criminale, Arendt avrebbe potuto tranquillamente prendere le mosse dal 1914:
disponibilità a uccidere e a essere uccisi come supremo obbligo civico;
esecuzione per i disertori e per i responsabili di atti anche insignificanti di
disobbedienza; decimazione per le unità militari sospettate di scarso zelo
omicida e suicida; criminalizzazione degli episodi di fraternizzazione che in
modo spontaneo si verificano al fronte; un’ecatombe dopo l’altra di vite umane
per disputarsi talvolta pochi chilometri quadrati di territorio; assalti
insensati contro trincee superprotette dalle mitragliatrici e portati avanti da
soldati spesso imbottiti di alcol dai loro ufficiali superiori; automutilazione
di soldati che cercano disperatamente di sottrarsi al macello ma che spesso
finiscono dinanzi al plotone d’esecuzione; nella Russia zarista, nonostante la
mancanza di munizioni, lo stato maggiore non esita a ordinare il ricorso
all'artiglieria al fine di inculcare lo zelo patriottico in reparti militari
che non ne dimostrano a sufficienza; nelle retrovie caccia ai traditori e alle
spie; provvedimenti punitivi contro i familiari dei disertori anche se
assolutamente estranei al delitto del loro congiunto; controllo così occhiuto
della vita privata da giungere (in Italia) a fissare dall’alto anche i
caratteri e il millimetraggio degli annunci funebri. Il tutto al fine di
difendere la Patria, il «supersenso ideologico» da Arendt indagato in relazione
al totalitarismo ma non alla guerra. Il fatto è che l’approccio in chiave
psicopatologica è tradizionalmente praticato per denunciare la follia
rivoluzionaria ovvero, nel caso di Arendt, per assimilare alla Germania
hitleriana il paese scaturito dalla rivoluzione d’ottobre e per tre decenni
diretto da Stalin.
4. L’etnicizzazione del virus
rivoluzionario
La messa in guardia contro il «virus di una specie nuova e sconosciuta»
prende di mira gli intellettuali giacobini, da Tocqueville considerati il
veicolo della «malattia della rivoluzione francese»; «siamo sempre in presenza
degli stessi uomini, benché le circostanze siano diverse». Sono gli anni in cui
Schopenhauer formula la tesi secondo cui il «carattere innato» non solo ha una
sua «originarietà e immodificabilità», ma è anche ereditario, e fino al punto
che sarebbe agevole ricostruire l'«albero genealogico» dei criminali e dei
fuorilegge. Si direbbe che il liberale francese sia tentato di ricostruire
l’albero genealogico di quei folli e criminali che sono gli agenti patogeni che
minacciano la salute dell’organismo sociale.
Essi sembrano costituire una «razza nuova» (race nouvelle). L’espressione qui utilizzata è sintomatica: gli
intellettuali portatori del «virus» della sovversione e della distruzione
tendono a essere razzizzati. Così anche in Constant: «freddi nel loro delirio»,
gli intellettuali inguaribilmente sovversivi, questi «jongleurs de sédition»,
non si stancano di minare non già una determinata società ma «le basi stesse
dell’ordine sociale»; sono «esseri di una specie sconosciuta» (êtres d’une espèce inconnue),
costituiscono anzi una «razza nuova» (race
nouvelle), una «razza detestabile» (détestable
race).
Ben presto, il «virus» misterioso e malefico e la non meglio
identificata «razza detestabile» cominciano ad assumere fattezze ebraiche.
Assieme agli intellettuali giacobini, sottoposti all’analisi o alla gogna
psicopatologica da Constant e Tocqueville, la pubblicistica
controrivoluzionaria prende di mira anche gli ebrei. Secondo Friedrich von
Gentz, il loro «peccato mortale» è un’«intelligenza» in cui non è «dato trovare
una scintilla d’amore e di vero sentimento». La loro «maledizione» è «di non poter
mai uscire dalla sfera dell’intelligenza»; «ecco perché questi mostri sono nel
loro elemento laddove l’intelligenza, la stupida e criminale intelligenza,
pretende di governare da sola». Il ritratto degli ebrei è il ritratto degli
intellettuali giacobini e in effetti, sempre agli occhi di Gentz, gli ebrei
sono i «rappresentanti nati dell’ateismo, del giacobinismo, dei lumi e via
dicendo». Il morbo da cui risultano affetti i giacobini, il morbo di
un’intelligenza priva del contatto con la realtà e del calore dei sentimenti,
trova la sua incarnazione nel popolo ebraico. Ovvero, per dirla questa volta
con Heinrich Leo, «la nazione ebraica si distingue in modo evidente fra tutte
le altre nazioni di questo mondo per il fatto di possedere uno spirito
sicuramente atto a corrodere e decomporre» e di abbandonarsi al culto di «un
astratto concetto generale». E di nuovo siamo portati a pensare agli
intellettuali giacobini quali portatori del «virus» della sovversione e membri
di una «razza nuova» e «detestabile», intenta per l’appunto alla sovversione.
Abbiamo visto Tocqueville e Taine rinchiudere idealmente gli intellettuali
giacobini alla Salpétrière o alla Bicêtre, ma per l’antisemitismo tra Otto e
Novecento, gli ebrei sono il simbolo stesso della «nevrosi» e sono studiati dall’illustre neurologo
Jean Martin Charcot e dai suoi discepoli quale espressione concentrata della
«nevropatia» del nomadismo e dell’incapacità di radicamento.
A partire dalla rivoluzione del 1905, il «virus di una specie nuova e
sconosciuta» trasmigra dalla Francia (ormai stabilizzata) alla Russia: è la
tesi di Furet e Pipes che ora, più ancora che nei giacobini, individuano nei
bolscevichi, l’incarnazione della figura dell’intellettuale affetto dal morbo
della sovversione. Sennonché, a partire per l’appunto dalla rivoluzione del
1905, la pubblicistica reazionaria russa accosta i bolscevichi agli ebrei, e
non si tratta di un accostamento meramente ideologico. Nell’impero russo i
pogrom contro gli ebrei si accompagnano alle aggressioni contro gli intellettuali
rivoluzionari; questa duplice e congiunta caccia all’uomo si accentua ancora di
più nel 1917, col profilarsi prima e col successo poi di quello che da un’ampia
pubblicistica viene letto come il complotto ebraico-bolscevico.
E’ il punto d’approdo di una lunga tradizione di pensiero (liberale e
conservatrice), impegnata a denunciare la rivoluzione come il risultato
dell’agitazione scomposta e ossessiva di intellettuali «astratti», attaccati in
modo maniacale alle loro «astrazioni» e quindi inguaribilmente sovversivi. Nel
1851 Engels si era fatto beffe della «superstizione che riconduceva la
rivoluzione alla malvagità di un pugno di agitatori»; molto più tardi, nel
1889, aveva accennato a Tocqueville e Taine quali autori «divinizzati dai
filistei», da un’opinione pubblica incapace di fare i conti con la rivoluzione
francese e incline a liquidarla quale espressione di follia criminale. La
superstizione filistea finisce col mettere la rivoluzione sul conto degli
ebrei, questi intellettuali astratti e sovversivi per eccellenza, incapaci di
riconoscersi in una tradizione storica determinati già per il fatto di essere
sradicati.
Ormai è chiaro: il «virus» che agli occhi di Tocqueville era di «una
specie nuova e sconosciuta» ha acquisito fattezze ben definite. Hitler non ha
dubbi:
«L’isolamento del virus ebraico è
una delle più grandi rivoluzioni che siano mai state compiute nel mondo. La
battaglia da noi intrapresa è della stessa natura della battaglia intrapresa,
nel secolo scorso, da Pasteur e da Koch. Quante malattie trovano la loro
origine nel virus ebraico! [...] Solo eliminando l’ebreo ritroveremo la salute.
Tutto ha una causa, niente avviene a caso».
Il processo di etnicizzazione del virus della sovversione e della
distruzione raggiunge ora il suo acme. Al di là della rivoluzione francese,
l’infuriare del «virus ebraico» spiega la rivoluzione d’ottobre e le
rivoluzioni anticoloniali: la rivolta contro il naturale ordine gerarchico
delle razze e delle classi può essere ispirata solo da un popolo privo di
radici e perciò stesso incline alla negazione dissolutrice e alla distruzione.
Con riferimento ai giacobini, Constant bolla la «razza detestabile», i
cui membri sono affetti da un freddo delirio; ma per gli antisemiti la «razza
detestabile» portatrice del virus, che aggredisce e compromette la salute di un
organismo sociale diversamente sano, non può che essere la razza ebraica. Tocqueville denuncia
i giacobini quali
espressione di una «razza turbolenta e distruttrice, sempre pronta ad abbattere
e incapace di fondare»: è esattamente il ritratto che l’antisemitismo traccia
degli ebrei. Nella diagnosi di Taine, la «mente» del militante giacobino e del
rivoluzionario radicale «non è sana», per il fatto che in essa da un lato è
divenuta «ipertrofica» la forza del pensiero astratto, dall’altro si è
«atrofizzata» la capacità di entrare in contatto col mondo reale degli uomini e
delle cose: ancora una volta, proprio in questi termini gli antisemiti che si
atteggiano a medici e psichiatri diagnosticano la malattia mortale
dell’intellettuale ebraico.
Ovviamente, un abisso separa dal nazismo Constant, Tocqueville e Taine,
nei quali non c’è traccia alcuna di antisemitismo. Resta il fatto che la storia
dell’antisemitismo è in larga parte la storia del processo di etnicizzazione
della «razza detestabile» di ideologi astratti, del «virus di una specie nuova
e sconosciuta» e dell’«ipertrofia» del pensiero astratto di cui parlano
rispettivamente Constant, Tocqueville e Taine. E questo esito paradossale e
tragico può essere letto come la reductio
ad absurdum della lettura in chiave psicopatologica delle grandi crisi
storiche.
5. Dalla
psicopatologia alla storia
C’è un’alternativa alla lettura in
chiave psicopatologica del lungo ciclo rivoluzionario in Francia e in Russia?
Prima del 1848, nei momenti di maggiore equilibrio e lucidità Tocqueville
argomento in modo ben diverso dal presunto diagnostico del «virus di una specie
nuova e sconosciuta» che infurierebbe tra i francesi, non si sa bene perché
incapaci di comprendere il valore della libertà e dignità individuale e
infatuati dall’ideale dell’eguaglianza del gregge. In un capitolo della Democrazia in America possiamo leggere:
«Si è molto esagerato
sugli sforzi compiuti dagli americani per sottrarsi al giogo degli inglesi.
Separati da 1300 leghe di mare dai loro nemici, aiutati da un potente alleato,
gli Stati Uniti dovettero la vittoria assai più alla loro posizione geografica
che al valore del loro esercito o al patriottismo dei loro cittadini. Chi
oserebbe paragonare la guerra americana alle guerre della Rivoluzione francese,
e gli sforzi degli americani ai nostri, quando la Francia, esposta agli
attacchi dell’Europa intera, senza denaro, senza credito, senza alleati,
gettava la ventesima parte della sua popolazione contro i suoi nemici,
spegnendo con una mano l’incendio che divorava le sue viscere, e portando con
l’altro la torcia per diffonderlo intorno a sé».
Come si vede, nel confronto qui
istituito tra Usa e Francia sono la «geografia» e la concreta costellazione politica
dei due paesi a svolgere il ruolo di gran lunga principale; non c’è posto né
per la psicopatologia né per una stereotipa psicologia dei popoli.
Un’analoga oscillazione possiamo notare
in un protagonista della rivoluzione americana. Hamilton non ha dubbi sul fatto
che gli «Enragés» sono dei «folli» (Madmen).
Epperò, nel 1787, alla vigilia del varo della nuova Costituzione federale,
Hamilton spiega che la limitazione del potere e l'instaurazione del governo
delle leggi ha avuto successo in due paesi di tipo insulare, dal mare messi al
riparo dalle minacce delle potenze rivali e concorrenti. Se dovesse fallire il
progetto di Unione e delinearsi sulle sue rovine un sistema di Stati analogo a
quello esistente sul continente europeo, farebbero la loro apparizione anche in
America i fenomeni dell'esercito permanente, di un forte potere centrale e,
persino, dell'assolutismo: «Verremmo così a vedere, in un breve volgere di
tempo, ben saldi in tutto il nostro Paese, quei medesimi strumenti di tirannide
che hanno rovinato il Vecchio Mondo» («The Federalist», art. n. 8).
A dimostrare particolare lucidità è
Hegel. Le Lezioni di filosofia della
storia fanno notare due punti essenziali:
1) «I liberi Stati nordamericani non
hanno nessuno Stato confinante con il quale si trovino in un rapporto analogo a
quello degli Stati europei fra di loro, uno Stato che debbano guardare con
diffidenza e contro il quale debbano mantenere un esercito permanente». 2) «La
via d’uscita della colonizzazione» consente alla repubblica nordamericana di
disinnescare in notevole misura il conflitto sociale. In ultima analisi: «se le
foreste della Germania fossero ancora esistite, è certo che non avremmo avuto
la rivoluzione francese», oppure questa si sarebbe manifestata in modo meno
radicale e meno tormentato. A sua volta Engels fa notare che in «Nord-America
[...] i conflitti di classe sono sviluppati solo in modo incompleto; le
collisioni di classe vengono di volta in volta camuffate mediante l’emigrazione
all’Ovest della sovrappopolazione proletaria». Quest’analisi può essere
ulteriormente arricchita: l’istituto della schiavitù ha consentito il ferreo
controllo delle «classi pericolose» sul luogo stesso di produzione, mentre
l’assenza sul continente americano di altre grandi potenze e di serie minacce
alla sicurezza nazionale ha reso ben più difficile che in Europa l’insorgere
dello stato di eccezione e delle situazioni di crisi acuta che mettono in
pericolo o fuori gioco la rule of law.
Ma di tutto ciò non c’è traccia nella contrapposizione stereotipa di francesi e
anglosassoni, cara a Tocqueville (e alla tradizione liberale nel suo complesso).
Ma a provocare una crisi storica acuta
e prolungata non basta da sola la situazione di precarietà geopolitica. C’è un
altro fattore decisivo di cui occorre tener conto: il conflitto che a un certo
punto interviene tra diversi principi di legittimazione del potere. Con una
tripartizione ormai divenuta classica, Max Weber ha distinto potere
tradizionale, potere legale e potere carismatico. Nel corso della guerra di
indipendenza condotta dai coloni americani, il potere tradizionale e legale
(costituito congiuntamente dalla Corona e dagli organismi rappresentativi) non
subiscono scosse di rilievo: la ribellione contro Giorgio III e il governo di
Londra non mette in discussione la legittimità e la continuità degli organismi
rappresentativi che da tempo operano sul suolo americano e che finiscono con
l’essere egemonizzati dai coloni ribelli; tanto più che Giorgio III e il
governo sono collocati a migliaia di chilometri di distanza e non intervengono
in alcun modo nella vita quotidiana dei sudditi o dei cittadini collocati al di
là dell’Atlantico. Ben diversa è la situazione che si viene a creare nel corso
della rivoluzione francese: con la fuga del re a Varennes e con l’emergere
della sua connivenza col nemico, il tradizionale potere monarchico è
discreditato ed entra in rotta di collisione con il potere legale che si va
faticosamente costituendo. Tanto più devastante è lo scontro, per il fatto che
esso avviene mentre ormai infuria una guerra che richiede invece un potere
forte e accentrato. Il prolungarsi delle ostilità sfocia nell’emergere di una
personalità carismatica (Napoleone) e di un potere carismatico, che entra in
contraddizione sia col potere legale che col tradizionale potere monarchico. La
proclamazione del Primo Impero ha luogo a partire dalla presa di coscienza da
parte di Napoleone della particolare precarietà del potere carismatico, che in
effetti non sopravvive alla sconfitta militare e a Waterloo. Ma l’avvento al
potere di Luigi Filippo non riesce a ridare saldezza e vitalità al tradizionale
potere monarchico, che già al suo interno risulta indebolito e lacerato a causa
della concorrenza borbonica e bonapartista, per non parlare della sfida che
proviene dall’esterno, e cioè dalla tradizione rivoluzionaria che, dileguata la
sfida di Napoleone e del potere carismatico, cerca faticosamente di costituirsi
come potere legale.
Si potrebbe ancora continuare a lungo,
ma ormai un punto dovrebbe essere chiaro. Il misterioso «virus di una specie
nuova e sconosciuta» non è altro, a ben guardare, che l’intreccio devastante
tra la fragilità della situazione geopolitica e una lotta prolungata
caratterizzata dallo scontro non solo per la conquista e il controllo del potere
ma anche per l’affermazione di diversi e contrapposti principi di
legittimazione del potere.
Osservazioni
analoghe si possono fare a proposito del lungo ciclo rivoluzionario russo. Per
quanto riguarda la dimensione geopolitica del problema, conviene richiamare
l’attenzione sul colloquio che nell’aprile del 1947, mentre già si profila la
guerra fredda, Stalin ha con il candidato repubblicano Harald Stassen: il primo
sottolinea con una certa invidia la situazione straordinariamente favorevole
degli Usa, protetti da due oceani e confinanti a Nord e a Sud con il Canada e
il Messico, due paesi deboli, che non rappresentano certo una minaccia. Trova
qui espressione con particolare chiarezza una preoccupazione che accompagna
Stalin sin dal suo avvento al potere.
E come in Francia, anche in Russia, la
fragilità della situazione geopolitica s’intreccia col divampare di una lotta
prolungata non solo tra diversi aspiranti al potere ma anche tra contrapposti
principi di legittimazione del potere in quanto tale. Per seguire ancora una
volta la tripartizione classica di Weber, il potere tradizionale aveva seguito
nella tomba la famiglia degli zar, anche se questo o quel generale cercava
disperatamente di riesumarlo; già incrinatosi in seguito all’aspro conflitto
emerso in occasione della trattative di Brest-Litovsk, il potere carismatico
non sopravvive alla morte di Lenin; infine, il potere legale incontra
straordinarie difficoltà di affermazione, dopo una rivoluzione che trionfa
agitando un’ideologia tutta attraversata dall’utopia enfatica dell’estinzione
dello Stato, in un paese dove l’odio dei contadini per i loro signori si
esprimeva tradizionalmente in toni violentemente antistatalistici.
Nella misura in cui un potere
carismatico era ancora possibile, esso tendeva a prender corpo nella figura di
Trotskij, il geniale organizzatore dell’Armata rossa e il brillante oratore e
prosatore che pretendeva di incarnare le speranze di trionfo della rivoluzione
mondiale e che da ciò faceva discendere la legittimità della sua aspirazione a
governare il partito e lo Stato. Stalin era invece l’incarnazione del potere
legale-tradizionale, che cercava faticosamente di prender forma: al contrario
di Trotskij, giunto tardi al bolscevismo, egli rappresentava la continuità
storica del partito protagonista della rivoluzione e quindi detentore della
nuova legalità; per di più, affermando la realizzabilità del socialismo anche
in un solo (grande) paese, Stalin conferiva una nuova dignità e identità alla
nazione russa, che così superava la crisi spaventosa, ideale oltre che
materiale, subita a partire dalla disfatta e dal caos della prima guerra
mondiale, e ritrovava la sua continuità storica. Ma proprio per questo gli
avversari gridavano al «tradimento», mentre traditori agli occhi di Stalin e
dei suoi seguaci apparivano quanti col loro avventurismo, facilitando
l’intervento delle potenze straniere, mettevano in pericolo in ultima analisi
la sopravvivenza della nazione russa, che era al tempo stesso il reparto
d’avanguardia della causa rivoluzionaria.
E forse qui interviene un motivo di
ulteriore complicazione rispetto alla situazione della Francia. Nel caso della
Russia lo stesso richiamo alla legalità rivoluzionaria è un motivo di
lacerazione e di scontro all’interno stesso delle forze che hanno rovesciato
l’Antico regime. Lo scontro tra Stalin e Trotskij è il conflitto non solo tra
due programmi politici ma anche tra due contrapposte letture della legalità
rivoluzionaria e dunque tra due contrapposti principi di legittimazione
nell’ambito stesso del fronte rivoluzionario.
Si comprende allora che la lunga crisi
rivoluzionaria russa è stata talvolta definita come un «Secondo periodo dei
disordini», in analogia a quello che infuria in Russia nel diciassettesimo
secolo. La lotta tra i pretendenti al trono, che si sviluppa intrecciandosi
alla crisi economica e alla rivolta contadina nonché all’intervento delle
potenze straniere, si acuisce nel Novecento col sopraggiungere del conflitto
anche tra i diversi principi di legittimazione del potere.
6. Alla
ricerca delle origini della follia
Piuttosto che impegnarsi in una faticosa analisi
storica, l’approccio in chiave psicopatologica preferisce cavarsela a buon
mercato rinviando alla follia ideologica. Ma quand’è che questa ha cominciato a
infuriare? Le origini del totalitarismo
di Arendt la vedono insorgere in Stalin (e così, in qualche modo, risparmiano
Lenin). La teoria oggi più diffusa del totalitarismo prende le mosse, invece,
dall’ottobre 1917. Più radicale è invece Pipes, secondo il quale, dopo essersi
manifestato in Francia con l’illuminismo e le sociétés de pensée, il
virus funesto avrebbe infuriato in Russia a partire non da Stalin o
dall’ottobre 1917 ma già dalla rivoluzione del 1905. In modo analogo argomenta
Furet e in modo analogo argomenta, un secolo prima, Taine, che abbiamo visto
criticare Voltaire in quanto «demone incarnato» e che spiega i deliri della
rivoluzione col fatto che la Francia era «inebriata dalla cattiva acquavite del Contratto sociale». Come si vede, anche la
scelta del punto di partenza è arbitraria.
Si può ora considerare conclusa la ricerca a ritroso delle
origini del maledetto virus rivoluzionario? Niente affatto! Alle spalle della
rivoluzione che in Francia liquida l’Antico regime agisce in Germania la Guerra
dei contadini che, guidati da Müntzer, insorgono contro i feudatari e
pretendono di abolire la servitù della gleba. I protagonisti di questa
rivoluzione sono bollati da Lutero quali «pazzi profeti» (tolle Propheten) che eccitano la «pazza plebaglia» (tolle Pöbel), quali «visionari» (Schwärmer, Geister, Schwarmgeister),
quali folli che hanno totalmente smarrito il senso della realtà. Ma questa
campagna contro l’ex-discepolo divenuto folle non impedisce a Lutero di essere
a sua volta annoverato da Nietzsche tra gli «spiriti malati» ovvero tra gli «epilettici dell’idea» (assieme a
Savonarola, Rousseau, Robespierre, Saint-Simon) (L’Anticristo, 54).
Sì, secondo Nietzsche, per cogliere le prime origini del morbo
rivoluzionario occorre procedere decisamente più a ritroso di quanto facciano i
consueti critici della rivoluzione: la follia che vorrebbe l’avvento di un
mondo perfetto e egualitario e che condanna la ricchezza e il potere in quanto
tali ha cominciato a manifestarsi già col cristianesimo e anzi, ancor prima, coi
profeti ebraici. A partire dalla persuasione della lunga durata del ciclo
rivoluzionario che infuria in Occidente, Nietzsche invita a procedere
finalmente alla resa dei conti con «il mondo da manicomio di interi millenni» e
con le «malattie mentali» che infuriano a partire dal «cristianesimo» (L’Anticristo, 38). Si potrebbe leggere
questa conclusione come l’involontaria reductio
ad absurdum dell’interpretazione in chiave psicopatologica del conflitto
politico e, in particolare, delle grandi crisi storiche. Ma non si dimentichi
che Nietzsche dichiara di essere «passato attraverso la scuola di Tocqueville e
Taine», col quale ultimo è in rapporti epistolari improntati a reciproca stima.
D’altro canto, ancora ai giorni nostri, sulla scia del filosofo tedesco un
illustre storico delle religioni (Mircea Eliade) e un eminente filosofo (Karl
Löwith) spiegano la follia sanguinaria del Novecento prendendo le mosse da
lontano, molto lontano: tutto sarebbe iniziato in un tempo assai remoto col
rifiuto del mito dell’eterno ritorno e con l’avvento della visione unilineare
del tempo e della connessa fede nel progresso, tutto sarebbe iniziato con
l’affermarsi ancora una volta della cultura ebraica e cristiana. La tendenza a
liquidare le grandi crisi storiche (e in ultima analisi la storia universale)
quali espressioni di follia caratterizza la cultura odierna in modo forse
ancora più forte che la cultura della Restaurazione.
Ma come spiegare il fatto che le esplosioni di follia si
manifestano in certi paesi più frequentemente e su scala più larga che in
altri? E’ nota la tendenza di Tocqueville a celebrare il superiore senso morale
e pratico e il più forte attaccamento alla libertà che, in contrapposizione ai
francesi, caratterizzerebbero gli americani.
E cioè, la lettura in chiave psicopatologica del conflitto tende a
sfociare in una lettura in chiave etnologica (e tendenzialmente razziale). E’
una tendenza che si manifesta con forza anche nella storiografia e nella
cultura contemporanea. Secondo Norman Cohn, l’Inghilterra «si fa notare per
un’assenza quasi totale di tendenze chiliastiche» e di «chiliasmo
rivoluzionario», che invece infuriano tra Francia e Germania. Più radicale
nella deriva etnologica (e in ultima analisi razziale) è Robert Conquest, che
vede nella Francia e nella Russia (e nella Germania) i luoghi delle
«aberrazioni mentali», dalle quali risultano invece immuni le rivoluzioni
inglese (si parla solo del Glorious Revolution del 1688) e americana. C’è di
più: la civiltà autentica trova la sua espressione più compiuta nella «comunità
di lingua inglese» e il primato di tale comunità ha un suo preciso fondamento
etnico, costituito dagli «anglocelti». A questo punto una domanda s’impone:
perché mai il culto degli «anglocelti» dovrebbe essere più accettabile del culto
degli «ariani» caro in modo particolare ai nazisti?
7. Un’improvvisa esplosione di
follia?
Mentre da un lato, nell’inseguire le origini del morbo della
rivoluzione o del «totalitarismo» in quanto tali, la consueta lettura
ideologica ed edificante spesso approda a un passato così remoto che tende a
sfociare in una mitica natura (etnica o apertamente razziale), dall’altro
questa medesima lettura ideologica ed edificante dimentica o rimuove il passato
che è immediatamente alle spalle di una crisi storica ben determinata, sicché
quest’ultima finisce col configurarsi come una manifestazione imprevista e
imprevedibile di follia.
Sennonché, contrariamente a quello che ritiene e afferma l’approccio
in chiave psicopatologica, il carattere catastrofico della crisi rivoluzionaria
in Russia è stato previsto con decenni di anticipo da autori tra loro assai
diversi. Nel 1811, dalla Pietroburgo ancora scossa dalla rivolta contadina
capeggiata da Pugacev, Maistre vede profilarsi una rivoluzione (questa volta
appoggiata dai «Pugacev dell’Università», cioè dagli intellettuali di
estrazione popolare) di un’ampiezza e radicalità tali da far impallidire la
rivoluzione francese. Nel 1859 Marx avverte: se la nobiltà continuerà a opporsi
a una reale emancipazione dei contadini, ne scaturirà un cataclisma sociale
«senza precedenti nella storia». Nel 1905, è lo stesso primo ministro russo S.
Witte a esprimersi in termini simili!
Considerazioni analoghe si possono fare per la crisi sfociata in
Germania nell’avvento di Hitler al potere. Poco dopo la firma del Trattato
di Versailles, il maresciallo Ferdinand Foch osserva: «non è la pace, è solo un
armistizio per venti anni». Nel 1921, dalla Russia sovietica è Lenin a mettere
in guardia contro la «prossima guerra imperialista» che si profila
all’orizzonte e che si preannuncia ancora più mostruosa di quella precedente:
«si massacreranno 20 milioni di uomini (invece di 10 milioni uccisi nella
guerra 1914-1918 e nelle “piccole” guerre complementari non ancora finite);
saranno mutilati - in questa prossima guerra, inevitabile (se si manterrà il
capitalismo) - 60 milioni di uomini (invece di 30 milioni mutilati nel
1914-1918». In quello stesso periodo di tempo il grande economista John Maynard Keynes, che
ha fatto parte della delegazione inglese a Versailles, mette in guardia contro
le conseguenze di una «pace cartaginese»: «La vendetta, oso prevedere, non
tarderà. Nulla potrà allora ritardare a lungo quella guerra civile finale tra
le forze della reazione e le disperate convulsioni rivoluzionarie, di fronte a
cui gli orrori dell’ultima guerra tedesca svaniranno nel nulla e
distruggeranno, chiunque sia il vincitore, la civiltà e il progresso della
nostra generazione». L’imperialismo tedesco non avrebbe tardato a tentare la
rivincita; ed esso tanto più facilmente conquista un consenso di massa, quanto
più i vincitori della prima guerra mondiale si mostrano vendicativi e miopi.
Il nazismo si caratterizza anche per la sua pretesa di riprendere la
tradizione coloniale per farle, nelle sue forme più barbare, nella stessa
Europa orientale. Ebbene, a partire già dall’Ottocento la più avanzata cultura
europea si è posto un interrogativo angoscioso: cosa sarebbe avvenuto se i
metodi di governo e di guerra in atto nelle colonie avessero finito con l’imporsi
anche nella metropoli? Lo stesso sterminio degli ebrei non si verifica affatto
in modo improvviso. Basti dire che nella Russia dilaniata dalla guerra civile,
gli ebrei, bollati in quanto burattinai del bolscevismo, diventano vittime di
massacri scatenati dalle truppe bianche appoggiate dall’Intesa: è il «preludio»
- osservano autorevoli storici - di quella che sarà poi la «soluzione finale».
Fa allora sorridere la tesi formulata da Benedetto Croce sul finire della
seconda guerra mondiale, mentre montava la critica per il sistema
politico-sociale che aveva reso possibile l’orrore. Secondo il filosofo
idealista, «il fascismo e il nazismo furono un fatto o un morbo intellettuale e
morale, non già classistico ma di sentimento, d’immaginazione e di volontà genericamente
umana», mentre, per quanto riguarda più propriamente l’Italia, l’avvento della
dittatura fascista faceva pensare a un’improvvisa e inspiegabile esplosione di
barbarie e di follia, era da paragonare all’«invasione degli Hyksos».
In conclusione. La lettura in chiave psicopatologica (e persino
demonologica) delle grandi crisi storiche da un lato consente di liquidare come
espressione di follia il gigantesco processo di emancipazione che va dalla
rivoluzione francese (anzi dall’illuminismo) alla rivoluzione d’ottobre;
dall’altro mette il fascismo e il nazismo sul conto di singole personalità
malate, assolvendo indirettamente il sistema politico-sociale e la tradizione
ideologica che hanno prodotto quei movimenti e quei regimi.
TESTI CITATI
Per il primo paragrafo (Dalla Restaurazione a Hannah Arendt),
cfr. Heinrich von TREITSCHKE, Deutsche Geschichte im neunzehnten
Jahrhundert, Leipzig, 1879-1894, vol. 3, p. 153 (per
F. Schlegel e Metternich); Benedikt F. X. von BAADER, Sämtliche Werke, a cura di F. Hoffmann et alii, Leipzig 1851-1860),
ristampa anastatica, Scientia, Aalen, vol. 6, pp. 21-22 e 26; Alexis de TOCQUEVILLE, Oeuvres complètes, a cura di
J. P. Mayer, Gallimard, Paris, 1951 sgg., vol. 13. 2, pp. 337 (per la
«malattia» e il «virus»), e vol. 12, pp. 136, 139 e 159 (per i Souvenirs); Hippolyte TAINE, Les
origines de la France contemporaine.
L’Ancien Régime (1876), tr. it., a cura di P. Bertolucci, Le origini della Francia contemporanea.
L’antico regime, Adelphi, Milano, 1986, p. 347 (per Voltaire); H. Taine, Les origines de la France contemporaine. La Révolution (1878-84), tr. it., a cura di P. Bertolucci, Le origini della Francia contemporanea. La
Rivoluzione, Adelphi, Milano, 1989, vol. 1, pp. 962. 594 e 597 (per il
«virus», l’«alterazione dell’equilibrio mentale» e il «male incurabile»), vol.
2, pp. 214, 217 (per i «pazzi lucidi» e la Bicêtre) e p. 360 (per Saint-Just);
Domenico Losurdo, Il revisionismo storico, Laterza,
Roma-Bari, 1996, cap. I, § 1 (per Furet e Pipes); Theodor W. Adorno, Eingriffe. Neun kritische Modelle,
Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1964, pp. 132-3; Hannah Arendt, The Origins of
Totalitarianism (1951; 3° ed. 1966), tr. it., di A. Guadagnin, Le origini del totalitarismo, Comunità,
Milano, 1989, pp. 626-29.
Per il secondo paragrafo (Incapacità di auto-riflessione e dogmatismo),
cfr. Emily Eakin, Is Racism Abnormal? A Psychiatrist Sees It as a
Mental Disorder, in «International Herald Tribune» del 17
gennaio 2000, p. 3 (per la «drapetomania»); Wyn C. Wade, The Fiery Cross.
The Ku Klux Klan in America, Oxford University Press,
New York-Oxford, 1997, p. 11 (per la «disestesia»); A. de Tocqueville, Oeuvres complètes, vol. 2.2, p. 337 (per la «razza dei
rivoluzionari»), vol. 6. 1, p. 58 (per la guerra dell’oppio) e 3.1, p. 229 (per
la guerra contro l’Algeria); D. Losurdo,
il revisionismo storico, cap. II, § 6
(per i «dissidenti del dissenso»); D. Losurdo,
Controstoria del liberalismo,
Laterza, Roma-Bari 2005, cap. VIII, § 7 (per Burke); Alphonse Aulard, Histoire
politique de la Révolution française (1926), Scientia, Aalen (riproduzione
anastatica), 1977, p. 19, nota 1 (per Mallet Du Pan).
Per il terzo paragrafo (Oscillazioni e scelte arbitrarie), cfr. Theodor W. Adorno, Studies in the Authoritarian Personality,
in Id., Gesammelte Schriften, Suhrkamp,
Frankfurt a. M., vol. 9. 1, p. 430; D. Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma, 2008,
pp. 13 e 233-39 (per Arendt); D. Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente.
Heidegger e l’«ideologia della guerra», Bollati Boringhieri, Torino, 1991,
cap. 1 (per Weber, Husserl e Freud); D. Losurdo,
Il revisionismo storico, capp. III, 3 e V, 2 (per
il clima della prima guerra mondiale).
Per il quarto paragrafo (L’etnicizzazione
del virus rivoluzionario), cfr. A. de Tocqueville,
Oeuvres complètes, vol. 13. 2, p. 337
(per la «malattia della rivoluzione francese», la «razza nuova» costituita
sempre degli «stessi uomini» e la «razza turbolenta»); Arthur Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung. Ergänzungen (1844), in Sämtliche Werke, a cura di W. v.
Löhneysen, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1976-82, vol. 2, pp.
767 e p. 666; D.
Losurdo, Controstoria del liberalismo, cap. VIII, § 11 (per Constant); D. Losurdo, Il
revisionismo storico, cap. V, § 8 (per Gentz e Leo); Pierre Birnbaum,
«La France aux Français». Histoire des
haines nationalistes, Seuil, Paris, 1993, p. 35 (per la «nevrosi») e Léon Poliakov, Le Mythe aryen. Essai sur les sources du racisme et des nationalismes
(1971), nuova ed. accresciuta, Complexe, Bruxelles, 1987, pp. 322-23 (per la
«nevropatia» ebraica); Karl Marx,
Friedrich Engels, Werke, Dietz, Berlin, 1955-89, vol. 8,
p. 5 e vol. 37, p. 154; Adolf Hitler, Tischgespräche, a cura di H. Picker (1951), Ullstein, Frankfurt a. M.-Berlin, 1989, p. 78; H. Taine, Les origines de
la France contemporaine. La
Révolution, tr. it. cit., vol. 1, p. 597.
Per il quinto paragrafo (Dalla
psicopatologia alla storia), cfr. A. de Tocqueville,
Oeuvres complètes, vol. 1.1, p. 114; Stanley Elkins e Eric McKitrick, The Age of
Federalism. The Early American Republic, 1788-1800, University Press, New York-Oxford, 1993, p. 319 (per i Madmen); Georg W. F. Hegel, Werke in zwanzig Bänden, a cura di E. Moldenhauer e K. M. Michel,
Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1969-79, vol. 12, pp. 114 e 113; K. Marx, F. Engels,
Werke, vol. 7, p. 288, D. Losurdo, Stalin. Storia e
critica di una leggenda nera, p. 237 (per il colloquio con Stassen) e pp.
103-04 (per il conflitto tra i principi di legittimità).
Per il sesto paragrafo (Alla ricerca
delle origini della follia), cfr. D. Losurdo,
Il revisionismo storico, cap. I, § 1;
H. Taine, Les origines de la France contemporaine. La Révolution, tr. it. cit., vol. 1, p. 569; Martin Luther, Ermahnung zum Frieden auf die zwölf Artikel der Bauernschaft in
Schwaben (1525), in Die Werke, a
cura di K. Aland, Klotz-Vandenhoeck & Ruprecht, Stuttgart-Göttingen, 1967,
vol. 7, pp. 165, 168, 174 e 180; M. Luther,
Daß diese Worte: Das ist mein Leib etc.
noch feststehen. Wider die Schwarmgeister (1527), in Werke, a cura di Diaconus Dr. Buchwald et alii, Schwetschke,
Braunschweig, 1890, vol. 4, pp. 342 sgg.; D. Losurdo,
Nietzsche, il ribelle aristocratico.
Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino,
2002, cap. 28, § 2 (per il richiamo di Nietzsche a Tocqueville e Taine); Norman Cohn, The Pursuit of the Millennium (1957), tr. it., di A. Guadagnin, I fanatici dell’Apocalisse, Comunità,
Torino, 2000, p. 21; Robert Conquest,
Reflections on a Ravaged Century
(1999), tr. it., di L. Vanni, Il secolo
delle idee assassine, Mondadori, Milano, 2001, pp. 15, 275 sgg. e 307.
Per il settimo paragrafo (Un’improvvisa
esplosione di follia?), cfr. D. Losurdo,
Stalin. Storia e critica di una leggenda
nera, p. 257 (per la previsione di Foch), pp. 95 sgg. (per i prodromi della
grande crisi storica in Russia) e 199 sgg. (per il «preludio» alla «soluzione
finale»); Vladimir
I. Lenin, Opere complete, Editori
Riuniti, Roma, 1955-70, vol. 33, p. 41; John
M. Keynes, The economic consequences of the peace (1920), Penguin Books,
London, 1988, pp. 56 e 267-68; Benedetto Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), a cura di A. Carella,
Bibliopolis, Napoli, 1993, vol. 2, pp. 51 e 101.
Traduzione tedesca in «Marxistische Blätter», 2012, n. 1, pp.
89-103; versione francese ridotta in Antoine Casanova et alii, La raison et ses combats. Lumière,
rationalisme moderne, Révolution, hier et aujourd’hui, Actes du colloque de
la Fondation Gabriel Péri, Paris, 2012, pp. 21-32.
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