Su
«la Repubblica» online del 9 giugno si può leggere:
LA
STORIA
Tibet, svelati dossier sulla
guerriglia
"I soldi della Cia al Dalai Lama"
La Sueddeutsche Zeitung: nel 1951 il
leader della non violenza approvò la lotta armata. Gli Usa addestrarono per anni
i guerriglieri, salvo poi sacrificare l'appoggio alla causa per la realpolitik
e la normalizzazione dei rapporti con la Cina
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI
Il Dalai Lam
BERLINO - Il Dalai Lama sapeva dall'inizio dell'appoggio della
Cia, i servizi segreti americani, alla lotta armata del popolo tibetano contro
l'occupante cinese. A quanto pare approvò, pur essendo simbolo mondiale della
non violenza. Cominciò con impegni segreti Usa col legittimo governo tibetano,
dunque col Dalai Lama in persona, dal 1951 al 1956, dopo la brutale occupazione
cinese del Tibet nel 1950. La storia è narrata dagli investigative reporters
della Sueddeutsche Zeitung, e sicuramente avrà provocato salti di gioia
all'ambasciata cinese a Berlino.
I primi contatti risalgono a un anno dopo l'aggressione cinese.
Sono tra il Dalai Lama e agenti americani attraverso l'ambasciata Usa a New
Delhi e il consolato a Calcutta. Il Pentagono assicurò al Dalai Lama in
persona, scrive la Sueddeutsche, armi leggere e aiuti finanziari al
movimento di resistenza. Nell'estate 1956, l'operazione della Cia in Tibet
diventa un dossier a sé, assume il nome di "ST Circus".
Si propone, dicono carte segrete e testimonianze dei veterani
Cia come John Kenneth Knaus, di "fare il possibile per tenere in vita il
concetto di un Tibet autonomo". E "sviluppare resistenza contro
sviluppi in Tibet guidati dalla Cina comunista". Knaus racconta il suo
primo, freddo incontro con il Dalai Lama. Washington si impegnò ad addestrare
guerriglieri tibetani nella lotta armata contro l'occupante cinese, ad armarli,
e anche a versare 180mila dollari l'anno, scrive il quotidiano liberal di
Monaco citando un presunto dossier segreto, "somme
dichiarate come aiuto finanziario al Dalai Lama".
Ai memorandum della Cia seguirono i fatti. I guerriglieri
tibetani furono addestrati in campi segreti prima in isole dei mari del sud,
poi a Camp Hale sulle montagne rocciose, dove le condizioni climatiche erano
simili a quelle tibetane. I contatti col Dalai Lama e col suo seguito c'erano
sempre, anche durante la sua avventurosa fuga dal Tibet occupato a Dharamsala
in India. I guerriglieri addestrati dalla Cia furono fino a 85mila, la loro
organizzazione si chiamava "Chushi Gangdrug".
Ufficiali e istruttori tibetani formati dagli americani venivano
paracadutati da vecchi bombardieri Boeing B17 (le gloriose Fortezze volanti che
piegarono Hitler e il Giappone) in volo a bassa quota sul Tibet occupato senza
contrassegni. I guerriglieri attaccavano in piccoli gruppi. "Uccidevamo
volentieri quanti più cinesi possibile, e a differenza di quando macellavamo
bestie per cibarci, non ci veniva di dire preghiere per la loro morte",
dice un veterano della resistenza tibetana.
Il Dalai Lama, scrive la Sueddeutsche, non è che abbia
mentito, ma certo non ha raccontato finora tutta la verità sui suoi rapporti
con la lotta armata. Lui che viene salutato come il Papa, "Sua
Santità", nel titolo del quotidiano tedesco è definito con un attacco
malizioso "Heiliger Schein", apparenza di santità. L'operazione Cia
col Dalai Lama cominciò nei Cinquanta, ma finì bruscamente. Dopo il viaggio
segreto dell'allora Segretario di Stato Usa Henry Kissinger a Pechino, inizio
della normalizzazione Usa-Cina. La causa tibetana fu sacrificata allora alla
realpolitik delle due potenze. Molti guerriglieri tibetani si spararono in
bocca o si tagliarono la gola o le vene piuttosto che cadere in mano al Guabuo,
la Gestapo cinese. Altri, mastini della guerra, fuggirono a sud e si
arruolarono nei migliori corpi speciali indiani.
(09 giugno 2012)
Leggiamo ora Domenico Losurdo, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza 2010:
Ho sempre condotto la battaglia tibetana per la
libertà secondo i principi della non-violenza» - afferma il Dalai Lama (TGd,
53). Ben diverso è il quadro tracciato da due libri che vedono rispettivamente
quale autore unico o quale co-autore due funzionari (di grado più o meno
elevato) della Cia. Il primo, che per decenni ha collaborato col Dalai Lama e
che esprime ammirazione e devozione per il «leader buddista votato alla
non-violenza», riporta in questi termini il punto di vista espresso dal suo
eroe: «Se non c’è alternativa alla violenza, la violenza è consentita». Tanto
più che occorre saper distinguere tra «metodo» e «motivazione»: «Nella resistenza
tibetana contro la Cina il metodo era l’uccisione, ma la motivazione era la
compassione, e ciò giustificava il ricorso alla violenza». In modo analogo,
confinando cioè la non-violenza nella sfera delle buone intenzioni, il Dalai
Lama citato e ammirato dal funzionario della Cia giustifica e anzi celebra la
partecipazione degli Usa alla seconda guerra mondiale e alla guerra di Corea,
allorché si trattava di «proteggere democrazia e libertà». Questi nobili ideali
avrebbero continuato a ispirare Washington in occasione della guerra del
Vietnam, anche se in tal caso i risultati non sono stati disgraziatamente
all’altezza delle intenzioni. Si comprende che, su tale base, perfetta risulta
la sintonia col funzionario della Cia, che ci tiene a farsi fotografare assieme
al Dalai Lama in atteggiamento amichevole e affettuoso. Anzi, egli si affretta
a dichiarare che anche lui, esattamente come il venerabile maestro buddista,
non ama le «armi da fuoco» ma che si rassegna ad approvarne e promuoverne l’uso
solo quando esso risulta inevitabile[1].
E dunque, così reinterpretata, la non-violenza sembrerebbe essere diventata la
dottrina ispiratrice della Cia!
Proprio i funzionari di questa agenzia finiscono col
tracciare un ritratto oggettivamente dissacratorio del Dalai Lama. La sua fuga
da Lhasa nel 1959 costituisce la realizzazione di «un obiettivo della politica
americana da almeno un decennio» (a partire cioè dal profilarsi della vittoria
dei comunisti nel grande paese asiatico). Al momento del passaggio della
frontiera tra Cina (Tibet) e India, il Dalai Lama nomina generale uno dei
tibetani che l’hanno assistito nella fuga, mentre altri due, senza perdere
tempo, con la radio loro fornita dalla Cia, trasmettono a quest’ultima un
messaggio urgente: «Per via aerea inviateci armi per 30.000 uomini»[2].
Nonostante l’addestramento sofisticato fornito ai guerriglieri, la
disponibilità da parte loro di un «inesauribile arsenale nel cielo» (le armi
paracadutate dagli aerei statunitensi) e la possibilità di avvalersi di una
retrovia sicura al di là della frontiera cinese e in particolare nella base di
Mustang (in Nepal), la rivolta tibetana, preparata già prima del 1959 col
lancio di armi e apparecchiature militari nelle aree più impervie del Tibet[3],
fallisce. Per dirla con uno storico canadese pù volte citato (Tom Grunfeld): «I
dissensi in Tibet erano insufficientemente diffusi per sostenere una lunga,
aperta ribellione»; anzi, «anche i critici più aspri della Cina sono costretti
a riconoscere che non c’è mai stata una scarsità di volontari tibetani» per
l’Esercito popolare di liberazione cinese [4].
In conclusione: i commando infiltrati a partire dall’India conseguono risultati
«generalmente deludenti»; «essi trovano scarso appoggio nella popolazione
locale». Il tentativo di «alimentare dall’aria una guerriglia su larga scala si
è rivelato un penoso fallimento»; «nel 1968 le forze di guerriglia a Mustang
invecchiavano», senza essere capaci di «reclutare nuovi elementi». Gli Usa sono
costretti ad abbandonare l’impresa, provocando una grave delusione nel Dalai
Lama: «Rammaricato egli osservò che nel 1974 Washington aveva cancellato il suo
sostegno al programma politico e paramilitare»[5].
Su violenza e non-violenza, ieri come oggi la mistificazione
dell’ideologia dominante è onnipresente. A proposito del carattere «pacifico»
delle manifestazioni di Piazza Tienanmen, sempre in Domenico Losurdo, La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza 2010, possiamo
leggere (pp. 225-227):
2001 sono
stati pubblicati e successivamente tradotti nelle principali lingue del mondo i
cosiddetti Tienanmen Papers che,
stando alle dichiarazioni dei curatori (statunitensi), riproducono rapporti
segreti e i verbali riservati del processo decisionale sfociato nella
repressione del movimento di contestazione. Si verifica un paradosso. Siamo in
presenza di Papers, la cui
autenticità è contestata dai dirigenti cinesi, i quali hanno forse difficoltà
ad ammettere la fuga ad alto livello di documenti riservati, che per di più
riferiscono di un processo decisionale così tormentato da concludersi solo
grazie all’intervento decisivo del leader carismatico, e cioè di Deng Xiaoping.
Sull’autenticità giurano invece i curatori e gli editori, secondo i quali i
documenti da loro pubblicati mostrano l’estrema brutalità di un regime che non
esita a sommergere in un bagno di sangue una protesta assolutamente pacifica e
in qualche modo gandhiana. Sennonché, la lettura del libro in questione finisce
col far emergere un quadro ben diverso della tragedia che si consuma a Pechino.
E’ vero, i leader del movimento fanno talvolta professione di «non-violenza»,
ma sono gli stessi curatori statunitensi dei Tienanmen Papers a sottolineare che le truppe chiamate agli inizi
di giugno a sgomberare la piazza «si scontrarono con una popolazione arrabbiata
e violenta». Sono già di per sé significativi i nomi che si erano dati i gruppi
più attivi: «Tigri volanti», «Brigata della morte», «Esercito dei volontari»[6].
E in effetti:
Più di cinquecento camion
dell’esercito sono stati incendiati in corrispondenza di decine di incroci […]
Su viale Chang’an un camion dell’esercito si è fermato per un guasto al motore
e duecento rivoltosi hanno assalito il conducente picchiandolo a morte […]
All’incrocio Cuiwei, un camion che trasportava sei soldati ha rallentato per
evitare di colpire la folla. Allora un gruppo di dimostranti ha cominciato a
lanciare sassi, bombe molotov e torce contro di quello, che a un certo punto si
è inclinato sul lato sinistro perché uno dei suoi pneumatici si è forato a
causa dei chiodi che i rivoltosi avevano sparso. Allora i manifestanti hanno
dato fuoco ad alcuni oggetti e li hanno lanciati contro il veicolo, il cui
serbatoio è esploso. Tutti e sei i soldati sono morti tra le fiamme[7].
Non solo è
ripetuto il ricorso alla violenza, ma talvolta entrano in gioco armi
sorprendenti:
Un fumo verde-giallastro si
è levato improvvisamente da un’estremità del ponte. Proveniva da un autoblindo
guasto che ora costituiva esso stesso un blocco stradale […] Gli auotoblindo e
i carri armati che erano giunti per sgomberare la strada dai blocchi non hanno
potuto fare altro che accodarsi alla testa del ponte. Improvvisamente è
sopraggiunto di corsa un giovane, ha gettato qualcosa in un autoblindo ed è
fuggito via. Alcuni secondi dopo lo stesso fumo verde-giallastro è stato visto
fuoriuscire dal veicolo, mentre i soldati si trascinavano fuori e si
distendevano a terra, in strada, tenendosi la gola agonizzanti. Qualcuno ha
detto che avevano inalato gas venefico. Ma gli ufficiali e i soldati nonostante
la rabbia sono riusciti a mantenere l’autocontrollo[8].
Questi atti
di guerra, col ricorso ripetuto ad armi vietate dalle convenzioni
internazionali, si intrecciano con iniziative che danno ancora di più da
pensare: viene «contraffatta la testata del “Quotidiano del popolo”»[9]. Sul
versante opposto vediamo le direttive impartite dai dirigenti del partito
comunista e del governo cinese alle forze militari incaricate della
repressione:
Se dovesse capitare che le
truppe subiscano percosse e maltrattamenti fino alla morte da parte della masse
oscurantiste, o se dovessero subire l’attacco di elementi fuorilegge con
spranghe, mattoni o bombe molotov, esse devono mantenere il controllo e
difendersi senza usare le armi. I manganelli saranno le loro armi di autodifesa
e le truppe non devono aprire il fuoco contro le masse. Le trasgressioni
verranno prontamente punite[10].
Se è
attendibile il quadro tracciato da questo libro pubblicato e propagandato
dall’Occidente, a dare prova di cautela e di moderazione non sono i
manifestanti ma piuttosto l’Esercito popolare di liberazione cinese, anche se non
devono essere mancati i reparti che, in una situazione difficile, non sono
riusciti a mantenere l’autocontrollo a loro ordinato.
Nei giorni
successivi il carattere armato della rivolta diveniva più evidente. Un
dirigente di primissimo piano del partito comunista richiamava l’attenzione su
un fatto decisamente allarmante: «Gli insorti hanno catturato alcuni autoblindo
e sopra vi hanno montato delle mitragliatrici, al solo scopo di esibirle». Si
sarebbero limitati a una minacciosa esibizione? E, tuttavia, le disposizioni
impartite all’esercito non subiscono un mutamento sostanziale: «Il Comando
della legge marziale deve rendere chiaro a tutte le unità che è necessario
aprire il fuoco solo in ultima istanza»[11].
Lo stesso
episodio del giovane manifestante che blocca col suo corpo un carro armato,
celebrato in Occidente quale simbolo di eroismo non-violento in lotta contro
una violenza cieca e indiscriminata, viene letto dai dirigenti cinesi, stando
sempre al libro qui più volte citato, in chiave diversa e contrapposta:
Abbiamo visto tutti le
immagini del giovane uomo che blocca il carro armato. Il nostro carro armato ha
ceduto il passo più e più volte, ma lui stava sempre lì in mezzo alla strada, e
anche quando ha tentato di arrampicarsi su di esso i soldati si sono trattenuti
e non gli hanno sparato. Questo la dice lunga! Se i militari avessero fatto
fuoco, le ripercussioni sarebbero state molto diverse. I nostri soldati hanno
eseguito alla perfezione gli ordini del Partito centrale. E’ stupefacente che
siano riusciti a mantenere la calma in una situazione del genere![12]
Il ricorso da parte dei manifestanti a gas asfissianti o
velenosi e soprattutto l’edizione-pirata del «Quotidiano del popolo» dimostrano
chiaramente che gli incidenti di piazza Tienanmen non sono stati una vicenda
esclusivamente interna alla Cina.
[1]
Knaus 1999, pp. X e 313.
[2]
Knaus 1999, p. 178; Conboy, Morrison 2002, p. 93.
[3]
Knaus 1999, pp. 225 e 154-55.
[4]
Grunfeld 1996, pp. 164 e 170.
[5]
Knaus 1999, pp. 281, 235, 292 e 312.
[6]
Nathan, Link 2001, pp. 446, 424, 393.
[7]
Nathan, Link 2001, pp. 444-45.
[8]
Nathan, Link 2001, p. 435.
[9]
Nathan, Link 2001, p. 324.
[10]
Nathan, Link 2001, p. 293.
[11]
Nathan, Link 2001, pp. 428-29.
[12]
Nathan, Link 2001, p. 486.
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