"Chinese Social Sciences Today" del 29 novembre 2011
Intervista di Tian Shigang
1. Nel 2005, è uscito il Suo libro Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi. Perche Lei ha voluto scriverlo?
Il libro è uscito in prima edizione nel 1999. Era il momento in cui la fine della guerra fredda veniva letta come il fallimento irrimediabile di ogni tentativo di costruzione di una società socialista, come il trionfo definitivo del capitalismo e persino come la «fine della storia». In Occidente, questo modo di vedere le cose penetrava nella stessa sinistra: gli stessi comunisti dichiaravano sì di voler essere fedeli agli ideali del socialismo, ma subito aggiungevano che essi non avevano nulla a che fare con la storia dell’Urss e neppure con la storia della Cina dove – essi dichiaravano – si era verificata la «restaurazione del capitalismo». Al fine di combattere questa «fuga dalla storia», mi sono impegnato a spiegare la storia del movimento comunista dalla Russia della rivoluzione d’ottobre alla Cina emersa dalle riforme di Deng Xiaoping.
2. Secondo Lei, per quali motivi l’URSS è stata smembrata?
Nel 1947, nel momento in cui formula la politica del «containment», il suo teorico, George F. Kennan precisa che bisogna «accrescere enormemente le tensioni (strains) sotto le quali la politica sovietica deve operare», in modo da «promuovere tendenze che devono alla fine trovare il loro sbocco o nella rottura o nell’ammorbidimento del potere sovietico». Ai giorni nostri una politica non molto diversa seguono gli Usa nei confronti della Cina, che però nel frattempo ha accumulato una grande esperienza politica.
Al di là del containment, a determinare il crollo dell’Urss sono state le gravi debolezze interne. Conviene riflettere su una celeberrima tesi di Lenin: «Senza teoria rivoluzionaria niente rivoluzione». Il partito bolscevico possedeva certo una teoria per la conquista del potere; ma se per rivoluzione s’intende non solo l’abbattimento del vecchio ordinamento ma anche la costruzione del nuovo, i bolscevichi e il movimento comunista erano sostanzialmente privi di una teoria rivoluzionaria. Non può certo essere considerata una teoria della società post-capitalistica da costruire l’attesa messianica di un mondo in cui sono totalmente dileguati gli Stati, le nazioni, il mercato, il denaro ecc. Il PCUS ha avuto il grave torto di non fare alcuno sforzo reale per colmare questa lacuna.
3. Secondo Lei, quali caratteri e quali significati ha la rivoluzione cinese?
Agli inizi del Novecento la Cina era parte integrante del mondo coloniale e semicoloniale, assoggettato dal colonialismo e dall’imperialismo. Un momento di svolta nella storia mondiale è stato rappresentato dalla rivoluzione di ottobre, che ha promosso e ispirato un’ondata anticolonialista di dimensioni planetarie. Successivamente, il fascismo e il nazismo sono stati il tentativo di rivitalizzare la tradizione coloniale. In particolare, la guerra scatenata dall’imperialismo hitleriano e dall’imperialismo giapponese rispettivamente contro l’Unione sovietica e contro la Cina sono state le più grandi guerre coloniali della storia. E dunque Stalingrado nell’Unione sovietica e la Lunga Marcia e la guerra di resistenza anti-giapponese in Cina sono state due grandiose lotte di classe, quelle che hanno impedito all’imperialismo più barbaro di realizzare una divisione del lavoro fondata sulla riduzione di grandi popoli a una massa di schiavi al servizio delle presunte razze dei signori.
Ma la lotta di emancipazione dei popoli in condizioni coloniali e semi-coloniali non si esaurisce con la conquista dell’indipendenza politica. Già nel 1949, all’immediata vigilia della conquista del potere, Mao Zedong aveva insistito sull’importanza dell’edificazione economica: Washington desidera che la Cina si «riduca a vivere della farina americana», finendo così col «diventare una colonia americana». E cioè, senza la vittoria nella lotta per la produzione, agricola e industriale, la vittoria militare era destinata a rivelarsi fragile e inconcludente. In qualche modo Mao aveva previsto il passaggio dalla fase militare alla fase economica della rivoluzione anticolonialista e anti-imperialista.
Cosa succede ai giorni nostri? Gli Usa stanno trasferendo in Asia il grosso del loro dispositivo militare. Sull’agenzia Reuter del 28 ottobre 2011 si può leggere che una delle accuse da Washington rivolte ai dirigenti di Pechino è quella di promuovere o di imporre il trasferimento di tecnologia dall’Occidente in Cina. E’ chiaro: gli Usa avrebbero voluto mantenere il monopolio della tecnologia anche al fine di continuare a esercitare l’egemonia e persino un indiretto dominio neo-coloniale; in altre parole, ancora ai giorni nostri, la lotta contro l’egemonismo si svolge anche sul piano dello sviluppo economico e tecnologico. E’ un punto che, purtroppo, la sinistra occidentale, non sempre riesce a comprendere. Occorre allora ribadirlo con forza: rivoluzionaria non è soltanto la lunga lotta con cui il popolo cinese ha posto fine al secolo delle umiliazioni e ha fondato la Repubblica Popolare; rivoluzionaria non è soltanto l’edificazione economica e sociale con cui il Partito comunista cinese ha liberato dalla fame centinaia di milioni di uomini; anche la lotta per rompere il monopolio imperialista della tecnologia è una lotta rivoluzionaria. C’è l’ha insegnato Marx. Sì, egli ci ha insegnato che già la lotta per superare nell’ambito della famiglia la divisione patriarcale del lavoro è una lotta rivoluzionaria; sarebbe ben strano se non fosse una lotta di emancipazione la lotta per porre fine a livello internazionale alla divisione del lavoro imposta dal capitalismo e dall’imperialismo, la lotta per liquidare definitivamente quel monopolio occidentale della tecnologia che non è un dato naturale ma il risultato di secoli di dominio e di oppressione!
4. Nel 2005 è stato pubblicato il Suo libro Controstoria del liberalismo, che ha conseguito un gran successo (in un anno è stato ristampato 3 volte ed è stato poi tradotto in molte lingue). Quale significato ha questo titolo?
Il mio libro non disconosce i meriti del liberalismo, che ha messo in evidenza il ruolo del mercato nello sviluppo delle forze produttive e ha sottolineato la necessità della limitazione del potere (sia pure solo a favore di una ristretta comunità di privilegiati). Controstoria del liberalismo polemizza contro l’autocelebrazione e la visione apologetica a cui si abbandonano il liberalismo e l’Occidente liberale. E’ una tradizione di pensiero nell’ambito della quale la celebrazione della libertà è accompagnata da terribili clausole d’esclusione a danno delle classi lavoratrici e, soprattutto, dei popoli coloniali. John Locke, padre del liberalismo, legittima la schiavitù nelle colonie ed è azionista della Royal African Company, la società inglese che gestisce il traffico e il commercio degli schiavi neri. Ma, al di là delle singole personalità, è più importante il ruolo dei paesi che maggiormente incarnano la tradizione liberale. Uno dei primi atti di politica internazionale dell’Inghilterra liberale, scaturita dalla Glorious Revolution del 1688-89, è di assicurarsi il monopolio del traffico degli schiavi neri.
Ancora più rilevante è il ruolo svolto dalla schiavitù nella storia degli Usa. Per trentadue dei primi trentasei anni di vita degli Stati Uniti a occupare il posto di Presidente sono proprietari di schiavi. E non è tutto. Per alcuni decenni gli Usa si sono impegnati a esportare la schiavitù con lo stesso zelo con cui oggi pretendono di esportare la «democrazia»: a metà dell’Ottocento essi reintroducono la schiavitù nel Texas precedentemente strappato al Messico con la guerra.
Certo, prima l’Inghilterra e poi gli Stati Uniti si sentono costretti ad abolire la schiavitù, ma gli schiavi neri vengono sostituiti dai coolies cinesi e indiani, essi stessi sottoposti a una forma appena camuffata di schiavitù. Peraltro, anche dopo l’abolizione formale dell’istituto della schiavitù, gli afroamericani continuano a subire un’oppressione così feroce, che un eminente storico statunitense (George M. Fredrickson) ha scritto: «gli sforzi per preservare la “purezza della razza” nel Sud degli Stati Uniti anticipavano alcuni aspetti della persecuzione scatenata dal regime nazista contro gli ebrei negli anni trenta del Novecento».
Quando comincia a cadere in crisi negli Usa il regime di supremazia bianca, di oppressione e discriminazione razziale a danno in primo luogo dei neri? Nel dicembre 1952 il ministro statunitense della giustizia invia alla Corte Suprema, impegnata a discutere la questione dell’integrazione nelle scuole pubbliche, una lettera eloquente: «La discriminazione razziale porta acqua alla propaganda comunista e suscita dubbi anche tra le nazioni amiche sull’intensità della nostra devozione alla fede democratica». Washington – osserva lo storico statunitense (C. Vann Woodward) che ricostruisce tale vicenda – correva il pericolo di alienarsi le «razze di colore» non solo in Oriente e nel Terzo Mondo ma nel cuore stesso degli Stati Uniti. E’ solo a questo punto che la Corte Suprema si decide a dichiarare incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche.
C’è un paradosso in questa vicenda. Ai giorni nostri Washington non si stanca di rimproverare alla Cina la mancanza di democrazia; vale però la pena di notare che un elemento essenziale della democrazia, qual è il superamento della discriminazione razziale, si è realizzato negli Usa grazie alla sfida rappresentata dal movimento anticolonialista mondiale di cui la Cina era ed è parte integrante.
5. A mio parere, fra le tante edizioni italiane del Manifesto del partito comunista, tre sono famose: quella di Antonio Labriola, quella di P. Togliatti e la Sua del 1999. Secondo Lei, quale significato il capolavoro di Marx e Engels ha per i marxisti d’oggi?
Nell’Introduzione all’edizione italiana del Manifesto del partito comunista, ho cercato di ricostruire il secolo e mezzo di storia trascorso dalla pubblicazione nel 1848 di questo testo straordinario. Per comprenderne il significato può essere utile un confronto. Otto anni prima un’altra grande personalità dell’Europa dell’Ottocento, Alexis de Tocqueville, pubblica il secondo libro della Democrazia in America e, in un capitolo centrale, afferma già nel titolo che «le grandi rivoluzioni diventeranno rare». Sennonché, se prendiamo il secolo o secolo e mezzo successivo all’anno (1840) in cui cade l’affermazione del liberale francese, ci accorgiamo che si tratta del periodo forse più ricco di rivoluzioni della storia universale.
Non c’è dubbio: nel prevedere la rivolta contro il capitalismo, contro un sistema che comporta la «trasformazione in macchina» dei proletari e la loro degradazione a «strumenti di lavoro», a «accessorio della macchina», ad appendice «dipendente e impersonale» del capitale «indipendente e personale», nel prevedere tutto ciò, il Manifesto del partito comunista ha saputo guardare più lontano. Nel descrivere con straordinaria lucidità e lungimiranza quella che oggi chiamiamo globalizzazione, Marx ed Engels sanno bene che si tratta di un processo contraddittorio, caratterizzato (nell’ambito del capitalismo) da colossali crisi di sovrapproduzione, che comportano la distruzione di enormi quantità di ricchezza sociale e l’immiserimento di masse sterminate di uomini e donne. Per di più, si tratta di un processo carico di conflitti, che possono persino sfociare in una «guerra industriale di annientamento tra le nazioni». Siamo portati a pensare alla prima guerra mondiale.
E’ contro questo mondo che il Manifesto del partito comunista evoca sia rivoluzioni proletarie, sia «rivoluzioni agrarie» e di «liberazione nazionale». In tal modo Marx ed Engels anticipano uno scenario che si realizzerà nel Terzo Mondo, ad esempio in Cina.
A proposito di quest’ultimo paese si può fare un’ultima considerazione. Il Manifesto del partito comunista prevede l’avvento di un’economia globalizzata, caratterizzata «da industrie nuove, la cui introduzione diventa una questione di vita e di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più materie prime locali, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti diventano oggetto di consumo non solo all’interno del paese, ma in tutte le parti del mondo». E cioè, pur concentrando lo sguardo sull’Europa, il testo di Marx ed Engels finisce col fornire indicazioni preziose anche per i paesi del Terzo Mondo che vogliono conseguire uno sviluppo economico indipendente.
6. Secondo Lei, quali contributi ha dato alla teoria marxista Antonio Gramsci?
Direi che sono almeno quattro i contributi che provengono dall’opera di questo grande pensatore.
a) Gramsci ha messo in evidenza la centralità dell’«egemonia» per la conquista e il mantenimento del potere politico. In un testo del 1926 egli chiarisce: il proletario rivela matura coscienza di classe solo allorché si innalza a una visione della sua classe di appartenenza quale nucleo dirigente di un blocco sociale molto più ampio, chiamato a portare la rivoluzione alla vittoria.
b) In secondo luogo Gramsci rivela piena consapevolezza della complessità del processo di costruzione del socialismo. Agli inizi, esso sarà «il collettivismo della miseria, della sofferenza». Ma non ci si può fermare qui, occorre impegnarsi per lo sviluppo delle forze produttive. In tale quadro va collocata l’importante presa di posizione di Gramsci a proposito della Nep (della Nuova Politica Economica introdotta dopo la fine del «comunismo di guerra»). La realtà dell’Urss del tempo ci mette in presenza di un fenomeno «mai visto nella storia». una classe politicamente «dominante» viene «nel suo complesso» a trovarsi «in condizioni di vita inferiori a determinati elementi e strati della classe dominata e soggetta». Le masse popolari che continuano a soffrire una vita di stenti sono disorientate dallo spettacolo del «nepman [l‘uomo della Nep] impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra»; e, tuttavia, ciò non deve costituire motivo di scandalo o di ripulsa, in quanto il proletariato, come non può conquistare il potere, così non può neppure mantenerlo se non è capace di sacrificare interessi particolari e immediati agli «interessi generali e permanenti della classe». Va da sé che poi questa situazione deve essere superata. L’approccio qui suggerito da Gramsci potrebbe essere utile alla sinistra occidentale per comprendere la realtà di un paese quale la Cina di oggi.
c) Gramsci ci fornisce indicazioni preziose anche su un altro punto. Dobbiamo immaginarci il comunismo come il totale dileguare non solo degli antagonismi di classe, ma anche dello Stato e del potere politico, nonché delle religioni, delle nazioni, della divisione del lavoro, del mercato, di ogni possibile fonte di conflitto? Mettendo in discussione il mito dell’estinzione dello Stato e del suo riassorbimento nella società civile, Gramsci ha fatto notare che la stessa società civile è una forma di Stato; ha inoltre sottolineato che l’internazionalismo non ha nulla a che fare col misconoscimento delle peculiarità e identità nazionali, le quali continueranno a sussistere ben oltre il crollo del capitalismo; quanto poi al mercato, Gramsci ritiene che converrebbe parlare di «mercato determinato» piuttosto che di mercato in astratto. Gramsci ci aiuta a superare il messianismo, che ostacola gravemente la costruzione della società post-capitalistica.
d) Infine. Pur condannando il capitalismo, i Quaderni del carcere si rifiutano di leggere la storia moderna e le rivoluzioni borghesi come un trattato di «teratologia», cioè come un trattato che si occupa di mostri. Noi comunisti dobbiamo saper criticare gli errori anche gravi di Stalin, di Mao o di altri dirigenti, senza mai ridurre questi capitoli di storia del movimento comunista a «teratologia», a storia di mostri.
d) Infine. Pur condannando il capitalismo, i Quaderni del carcere si rifiutano di leggere la storia moderna e le rivoluzioni borghesi come un trattato di «teratologia», cioè come un trattato che si occupa di mostri. Noi comunisti dobbiamo saper criticare gli errori anche gravi di Stalin, di Mao o di altri dirigenti, senza mai ridurre questi capitoli di storia del movimento comunista a «teratologia», a storia di mostri.
Una entrevista de Domenico Losurdo en Chinese Social Sciences Today
Tian Shigang
Traducción del italiano: Juan Vivanco
En 2005 se publicó su libro Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi (1). ¿Qué le indujo a escribirlo?
La primera edición del libro se publicó en 1999. Era el momento en que el fin de la guerra fría se interpretaba como el fracaso irremediable de todo intento de construir una sociedad socialista, como el triunfo definitivo del capitalismo e incluso como el «fin de la historia». En Occidente este modo de ver las cosas hacía mella en la propia izquierda: hasta los comunistas, aunque declaraban que querían permanecer fieles a los ideales del socialismo, a renglón seguido añadían que ellos no tenían nada que ver con la historia de la URSS ni con la historia de China donde, decían, se había producido la «restauración del capitalismo». Para oponerme a esta «huida de la historia» me propuse explicar la historia del movimiento comunista desde la Rusia de la Revolución de Octubre hasta la China surgida de las reformas de Deng Xiaoping.
A su juicio, ¿por qué motivos se desmembró la URSS?
En 1947, cuando enuncia la política de la contención, su teórico, George F. Kennan, explica que es preciso «aumentar enormemente las tensiones (strains) que debe soportar la política soviética», a fin de «promover tendencias que acaben quebrando o ablandando el poder soviético». En nuestros días no es muy distinta la política de EE. UU. hacia China, aunque mientras tanto China ha acumulado una gran experiencia política.
Más allá de la contención, lo que determinó el derrumbe de la URSS fueron sus graves debilidades internas. Conviene reflexionar sobre la célebre tesis de Lenin: «No hay revolución sin teoría revolucionaria». El partido bolchevique, sin duda, tenía una teoría para la conquista del poder; pero si por revolución se entiende no sólo la destrucción del viejo orden sino también la construcción del nuevo, los bolcheviques y el movimiento comunista carecían sustancialmente de una teoría revolucionaria. Desde luego, no se puede considerar que una teoría de la sociedad poscapitalista por construir se reduzca a la espera mesiánica de un mundo en el que hayan desaparecido por completo los Estados, las naciones, el mercado, el dinero, etc. El PCUS cometió el grave error de no hacer ningún esfuerzo para llenar esa laguna.
A su juicio, ¿qué caracteres y qué significados tiene la revolución china?
A comienzos del siglo XX China formaba parte del mundo colonial y semicolonial, sometido por el colonialismo y el imperialismo. Un hito histórico fue la Revolución de Octubre, que desató e impulsó una oleada anticolonialista de dimensiones planetarias. A continuación, el fascismo y el nazismo fueron el intento de revitalizar la tradición colonial. En particular, la guerra desencadenada por el imperialismo hitleriano y el imperialismo japonés, respectivamente, contra la Unión Soviética y contra China, fueron las mayores guerras coloniales de la historia. De modo que Stalingrado en la Unión Soviética y la Larga Marcha y la guerra de resistencia contra Japón en China fueron dos grandiosas luchas de clase, las que impidieron que el imperialismo más bárbaro llevara a cabo una división del trabajo basada en la reducción de grandes pueblos a una masa de esclavos al servicio de las supuestas razas de los señores.
Pero la lucha de emancipación de los pueblos en condiciones coloniales y semicoloniales no acaba con la conquista de la independencia política. Ya en 1949, a punto de conquistar el poder, Mao Zedong había insistido en la importancia de la edificación económica: Washington quiere que China se «reduzca a vivir de la harina estadounidense», con lo que «acabaría siendo una colonia estadounidense». Es decir, sin la victoria en la lucha por la producción agrícola e industrial, la victoria militar acabaría siendo frágil y vacua. De alguna manera Mao había previsto el paso de la fase militar a la fase económica de la revolución anticolonialista y antiimperialista.
¿Qué ocurre en nuestros días? EE. UU. está trasladando a Asia el grueso de su dispositivo militar. En la agencia Reuter del 28 de octubre de 2011 se puede leer que una de las acusaciones de Washington a los dirigentes de Pequín es que fomentan o imponen la transferencia de tecnología occidental a China. Está claro: EE. UU. pretende conservar el monopolio de la tecnología para seguir ejerciendo la hegemonía e incluso un dominio neocolonial indirecto; en otras palabras, todavía en nuestros días la lucha contra el hegemonismo se plantea también en el plano del desarrollo económico y tecnológico. Es un aspecto que, lamentablemente, la izquierda occidental no siempre logra entender. Hay que recalcarlo con fuerza: revolucionaria no es sólo la larga lucha con que el pueblo chino puso fin al siglo de las humillaciones y fundó la República Popular; revolucionaria no es sólo la edificación económica y social con que el Partido Comunista Chino libró del hambre a cientos de millones de hombres; también la lucha para romper el monopolio imperialista de la tecnología es una lucha revolucionaria. Nos lo enseñó Marx. Sí, él nos enseñó que la lucha por superar, en el ámbito de la familia, la división patriarcal del trabajo, es ya una lucha revolucionaria; ¡sería muy extraño que no fuese una lucha de emancipación la lucha por acabar a escala internacional con la división del trabajo impuesta por el capitalismo y el imperialismo, la lucha por liquidar definitivamente ese monopolio occidental de la tecnología, que no es un dato natural, sino el resultado de siglos de dominio y opresión!
En 2005 se publicó su libro Controstoria del liberalismo (2), que logró un gran éxito (en un año se reeditó tres veces y luego se tradujo a varios idiomas). ¿Qué significa ese título?
Mi libro no desconoce los méritos del liberalismo, que pone en evidencia el papel del mercado en el desarrollo de las fuerzas productivas y subraya la necesidad de limitar el poder (aunque sólo a favor de una reducida comunidad de privilegiados). Controstoria del liberalismo polemiza con el autobombo y la visión apologética a los que se entregan el liberalismo y el Occidente liberal. Es una tradición de pensamiento en cuyo ámbito la exaltación de la libertad va unida a terribles cláusulas de exclusión en perjuicio de las clases trabajadoras y, sobre todo, de los pueblos colonizados. John Locke, padre del liberalismo, legitima la esclavitud en las colonias y es accionista de la Royal African Company, la empresa inglesa que gestiona el tráfico y el comercio de los esclavos negros. Pero, más allá de las personalidades individuales, lo importante es el papel de los países que mejor encarnan la tradición liberal. Uno de los primeros actos de política internacional de la Inglaterra liberal, nacida de la Revolución Gloriosa de 1688-1689, es hacerse con el monopolio del tráfico de esclavos negros.
Más importante aún es el papel de la esclavitud en la historia de EE. UU. Durante 32 de los primeros 36 años de vida de Estados Unidos, la presidencia del país estuvo ocupada por propietarios de esclavos. Y eso no es todo. Durante varias décadas el país se dedicó a exportar la esclavitud con el mismo celo con que hoy pretenden exportar la «democracia»: a mediados del siglo XIX reintrodujeron la esclavitud en Tejas, recién arrebatado a Méjico con una guerra.
Es verdad que primero Inglaterra y luego Estados Unidos se vieron obligados a abolir la esclavitud, pero el lugar de los esclavos negros lo ocuparon los culíes chinos e indios, a su vez sometidos a una forma apenas disimulada de esclavitud. Además, después de la abolición formal de la esclavitud, los afroamericanos siguieron sufriendo una opresión tan feroz que un eminente historiador estadounidense, George M. Fredrickson, ha escrito: «los esfuerzos por preservar la “pureza de la raza” en el sur de Estados Unidos preludiaban algunos aspectos de la persecución desencadenada por el régimen nazi contra los judíos en los años treinta del siglo XX».
¿Cuándo empieza a resquebrajarse en EE. UU. el régimen de supremacía blanca, de opresión y discriminación racial, ante todo contra los negros? En diciembre de 1952 el ministro estadounidense de Justicia envía al Tribunal Supremo, en plena discusión sobre la integración en las escuelas públicas, una carta elocuente: «La discriminación racial lleva el agua al molino de la propaganda comunista y también siembra dudas en las naciones amigas acerca de nuestra devoción en la fe democrática». Washington, observa el historiador estadounidense que reconstruye este episodio (C. Vann Woodward), corría el riesgo de enajenarse el favor de las «razas de color» no sólo en Oriente y el Tercer Mundo, sino también en su propio país. Sólo entonces el Tribunal Supremo decidió declarar inconstitucional la segregación racial en las escuelas públicas.
En esta historia hay una paradoja. Hoy Washington no se cansa de reprocharle a China su falta de democracia; pero conviene señalar que un elemento esencial de la democracia, la superación de la discriminación racial, sólo fue posible en Estados Unidos gracias al reto representado por el movimiento anticolonialista mundial, del que China formaba y forma parte.
A mi entender, entre las muchas ediciones italianas del Manifiesto del Partido Comunista, hay tres que destacan: la de Antonio Labriola, la de P. Togliatti y la suya de 1999. Según usted, ¿qué significado tiene esta obra fundamental de Marx y Engels para los marxistas de hoy?
En la Introducción a la edición italiana del Manifiesto del Partido Comunista he tratado de reconstruir el siglo y medio de historia transcurrido desde la publicación en 1848 de este texto extraordinario. Una confrontación puede ayudarnos a entender su significado. Ocho años antes, otra gran personalidad de la Europa del siglo XIX, Alexis de Tocqueville, publica el segundo libro de Democracia en América y, en un capítulo central, afirma ya en el título que «las grandes revoluciones serán cada vez más infrecuentes». Pero si nos fijamos en el siglo o siglo y medio posterior al año (1840) en que el liberal francés hace esta afirmación, vemos que se trata del periodo quizá más abundante en revoluciones de la historia universal.
No cabe duda: al prever la rebelión contra el capitalismo, contra un sistema que supone la «transformación en máquina» de los proletarios y su degradación a «instrumentos de trabajo», a «accesorios de la máquina», a apéndice «dependiente e impersonal» del capital «independiente y personal», al prever todo esto, el Manifiesto del Partido Comunista supo mirar más lejos. Cuando describen con extraordinaria lucidez y clarividencia la que hoy llamamos globalización, Marx y Engels saben bien que se trata de un proceso contradictorio, caracterizado (en el ámbito del capitalismo) por colosales crisis de sobreproducción que conllevan la destrucción de enormes cantidades de riqueza social y la miseria de masas ingentes de hombres y mujeres. Además es un proceso erizado de conflictos que pueden desembocar incluso en una «guerra industrial de aniquilación entre las naciones». Lo cual nos lleva a pensar en la primera guerra mundial.
Contra este mundo el Manifiesto del Partido Comunista evoca tanto revoluciones proletarias como «revoluciones agrarias» y de «liberación nacional». De modo que Marx y Engels se adelantan a un escenario que se producirá en el Tercer Mundo, como por ejemplo en China.
A propósito de China se puede hacer una última consideración. El Manifiesto del Partido Comunista prevé la aparición de una economía globalizada caracterizada por «industrias nuevas, cuya introducción pasa a ser una cuestión de vida o muerte para todas las naciones civilizadas, industrias que ya no elaboran materias primas locales, sino materias primas procedentes de las regiones más remotas, y cuyos productos se consumen no sólo en el interior del país, sino en todas las partes del mundo». Por lo tanto, aunque centra la mirada en Europa, el texto de Marx y Engels acaba dando indicaciones muy valiosas para los países del Tercer Mundo que quieren alcanzar un desarrollo económico independiente.
¿Cuáles han sido, a su juicio, las aportaciones de Antonio Gramsci a la teoría marxista?
Creo que las aportaciones de la obra de este gran pensador han sido por lo menos cuatro:
a) Gramsci puso en evidencia la importancia de la «hegemonía» para la conquista y conservación del poder político. En un texto de 1926 explica: el proletariado sólo da muestras de poseer una conciencia de clase madura cuando se eleva a una visión de su clase de pertenencia como núcleo dirigente de un bloque social mucho más amplio, llamado a conducir la revolución a la victoria.
b) En segundo lugar, Gramsci se muestra plenamente consciente de la complejidad que entraña el proceso de construcción del socialismo. Al principio será «el colectivismo de la miseria, del sufrimiento». Pero no puede quedarse en eso, tiene que acometer el desarrollo de las fuerzas productivas. En este marco debe situarse la importante toma de posición de Gramsci a propósito de la NEP (la Nueva Política Económica introducida al término del «comunismo de guerra»). La realidad de la URSS del momento nos coloca en presencia de un fenómeno «nunca visto en la historia»: una clase políticamente «dominante» se halla «globalmente en condiciones de vida inferiores a las de ciertos elementos y estratos de la clase dominada y sometida». Las masas populares, que siguen padeciendo una vida de privaciones, están desorientadas ante el espectáculo del «nepman [el hombre de la NEP] enfundado en su abrigo de pieles, que tiene a su disposición todos los bienes de la tierra», pero esto no debe ser motivo de escándalo o repulsa, pues el proletariado, lo mismo que no puede conquistar el poder, tampoco puede mantenerlo si es incapaz de sacrificar intereses particulares e inmediatos a los «intereses generales y permanentes de la clase». Se trata, por supuesto, de una situación transitoria. Lo que sugiere aquí Gramsci puede serle útil a la izquierda occidental para comprender la realidad de un país como la China actual.
c) Gramsci nos da algunas valiosas indicaciones sobre otro aspecto. ¿Debemos imaginar el comunismo como la disipación total no sólo de los antagonismos de clase, sino también del Estado y del poder político, así como de las religiones, las naciones, la división del trabajo, el mercado, cualquier fuente posible de conflicto? Cuestionando el mito de la extinción del Estado y de su disolución en la sociedad civil, Gramsci señala que la propia sociedad civil es una forma de Estado; también destaca que el internacionalismo no tiene nada que ver con desconocer las peculiaridades e identidades nacionales, que subsistirán mucho después de la caída del capitalismo; en cuanto al mercado, Gramsci considera que convendría hablar de «mercado determinado», más que de mercado en abstracto. Gramsci nos ayuda a superar el mesianismo, que dificulta gravemente la construcción de la sociedad poscapitalista.
d) Por último. Aunque condenan el capitalismo, las Cartas desde la cárcel evitan interpretar la historia moderna y las revoluciones burguesas como un tratado de «teratología», es decir, un tratado que se ocupa de los monstruos. Los comunistas debemos saber criticar los errores, a veces graves, de Stalin, Mao y otros dirigentes, sin reducir nunca estos capítulos de historia del movimiento comunista a «teratología», a historia de monstruos.
1. ¿Fuga de la historia? La revolución china y la revolución rusa hoy, traducción de Alfredo Bauer, Cartago, Buenos Aires, 2001.
2. Contrahistoria del liberalismo, traducción de Marcia Gasca, Eds. de Intervención Cultural, Mataró, 2007.
Nessun commento:
Posta un commento