domenica 2 gennaio 2011

Ancora sulla Cina. Domenico Losurdo risponde ad alcuni lettori

Renato ha detto... 26 dicembre 2010 01:49
Temo che le influenze politiche abbiano ultimamente condizionato l'assegnazione dello stesso nobel per la letteratura, sempre più spesso dato a dissidenti (filo-occidentali e semi sconosciuti) di governi progressisti, a critici ideologici del socialismo reale sino ad arrivare all'ultimo assegnato a uno scrittore noto negli ultimi anni quasi esclusivamente per i suoi violentissimi attacchi contro tutti i paesi del Sud America che si sforzano di non essere più il cortile di casa degli Usa.
Per quanto concerne il premio nobel per la pace, purtroppo, anche prima della seconda guerrra mondiale era assegnato per motivi ideologici molto discutibili. A partire dal primo, assegnato al noto campione della pace Nicola II, a tutti i seguenti assegnati prima del 1914 a "pacifisti" che poi appoggiarono senza eccezioni la prima guerra mondiale. Verrebbe quasi da dar ragione a Trotskij che sconsolato, di fronte al sostegno dato dai "pacifisti" del tempo alla prima guerra mondiale, osservava nella sua autobiografia che i pacifisti (almeno certi) sono tali solo quando la guerra non c'è.

DAVIDE ha detto...  22 dicembre 2010 14:24
Egregio prof Losurdo, una volta discutendo in chat con un mio amico comunista (anche io lo sono) parlavamo sulla Cina: lui l'ha attacca in quanto capitalista ed io la difendo in quanto socialista. Come ultimo messaggio (questa volta tramite Facebook) mi ha scritto la seguente cosa: "Fukujama si sbagliava, dato che a Cuba non c'è il capitalismo. Ci sono elementi di capitalismo, certo, questo è inevitabile, ma prevale ancora la proprietà statale (anche se il ruolo dirigente del proletariato sull'economia è molto marginale). In Cina invece, nonostante il controllo statale sul credito, la maggior parte delle aziende è privata. E il ruolo dirigente del proletariato è praticamente nullo" Poi dopo mi ha scritto: "Io dico che un operaio della Fiat comanda in fabbrica quanto un operaio della sede cinese della Honda. Cioè niente. A Cuba invece ci sono ancora comitati di fabbrica che applicano un minimo di gestione "dal basso" (solo nelle aziende ancora pubbliche, ovviamente, e comunque sempre meno) " Mi piacerebbe sapere da lei (che la considero uno dei più grandi intellettuali marxisti di oggi) come gli potrei rispondere nel metodo e nel merito di ciò che il mio amico mi ha affermato.

DL: Mi permetto di rispondere congiuntamente a due interventi che richiamano di nuovo l’attenzione sulla natura politica e sociale della Cina.

Dobbiamo considerarlo un paese «autoritario» o «totalitario», come sembra ritenere, forse con qualche incertezza, il lettore giapponese? Vediamo alcuni dati di fatto incontestabili:
1) I ceti intellettuali cinesi si formano largamente all’estero (e in modo particolare negli Usa). Sono sempre più numerosi gli studenti che conseguono la laurea o il dottorato all’estero e che trascorrono in Occidente o in Giappone prolungati periodo di studio (e talvolta di lavoro) prima di far ritorno in patria.
2) Le università cinesi pullulano letteralmente di visiting professors (soprattutto statunitensi). Docenti madrelinguisti provenienti dai diversi paesi anglofoni sono capillarmente presenti nelle scuole cinesi di ogni ordine e grado. Non mancano gli istituiti scolastici, professionali e culturali, privati e di proprietà occidentale.
3) Gli autori occidentali più significativi dell’Occidente sono regolarmente tradotti e spesso invitati a fare conferenze in Cina. Nel mio libro sulla non-violenza cito il caso del calunnioso attacco lanciato contro il governo della Repubblca Popolare di Cina da Dworkin nel corso del suo seminario a Pechino.
Sarebbe bello se il popolo statunitense fosse esposto all’influenza della cultura cinese (e internazionale) nella stessa misura in cui il poplo cinese è esposto all’influenza della cultura statunitense (e internazionale). Se si verificasse questo miracolo, il popolo statunitense non continuerebbe a credere alla leggenda secondo cui l’Irak di Saddam ha collaborato con i terroristi dell’11 settembre ed era in possesso della bomba atomica!
Piuttosto che far ricorso a categorie discutibili e grevemente ideologiche, conviene prendere atto che in Cina c’è il monopolio comunista del potere politico e che il grande paese asiatico non è ancora riuscito a realizzare il «monopartitismo competitivo» che caratterizza le cosiddette «democrazie occidentali» (ho chiarito il concetto di «monopartitismo competitivo» nel mio libro: «Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale»).
Un punto occorre tuttavia tener presente. Lo chiarisco facendo riferimento a un’indagine promossa da una famosa società demoscopica statunitense (Pew Global Survey). Alla domanda «Sei soddisfatto del tuo Paese?», in Cina risponde positivamente l’87% della popolazione, in Brasile (il secondo paese in questa classifica) il 50%, in India il 45%, negli Usa il 30% e in Italia il 16% (cfr. Federico Fubini su «Corriere della Sera» del 19 dicembre, p. 27).

E veniamo ora alla seconda osservazione: in Cina vige il capitalismo? Come ho cercato di spiegare nell’articolo che ho scritto di ritorno per l’appunto della Cina e che si può leggere in questo stesso blog, persino nelle aziende private è considerevole il peso che il partito comunista esercita a partire anche «dal basso». Mi sembra comunque un errore metodologico perdere di vista quello che avviene «dall’alto». A dirigere il paese non è certo la borghesia capitalistica. E i risultati si vedono. Riprendo dall’«International Herald Tribune» del 28 dicembre (p. 18) una notizia minuscola ma assai significativa: «Il salario minimo crescerà a Pechino del 21% a partire dal 1 gennaio […], dopo un 20% di incremento appena sei mesi fa». Dopo aver liberato centinaia di milioni di persone dalla miseria più nera, i dirigenti cinesi sono ora impegnati a innalzare il livello dei salari e ad accelerare lo sviluppo delle regioni relativamente meno sviluppate (nel 2010 il tasso di crescita del Tibet e del Xinjiang risulta superiore alla media nazionale). In queste condizioni parlare di capitalismo significa procedere ad un’apologia che questo sistema di sfruttamento non merita in alcun modo.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro prof Losurdo,
sono uno studente universitario di 26 anni.
E' da 2 anni che sto seguendo le sue ricerche sulla storia del movimento comunista, di cui apprezzo la sua dovuta rigorosità e onestà documentaria.
Ultimamente ho letto dei libri che trattano dei comunisti italiani che furono rinchiusi in URSS nei GULAG durante l'era di Stalin.
I libri sono i seguenti:

- G. Lehner, F. Bigazzi, CARNEFICI E VITTIME. I CRIMINI DEL PCI IN UNIONE SO0VIETICA, Mondadori, Milano, 2006

- E. Dundovich - F. Gori, ITALIANI NEI LAGER DI STALIN, laterza, Roma-Bari, 2006

- E. Dandovich - F. Gori - E. Guercetti, REFLECTIONS OF THE GULAG, Feltrinelli Editore, Milano, 2003

Mi piacerebbe sapere da lei se fonti affidabili e se è vero che i documenti che riportano sono autentici in cui dimostrano che centinaia di comunisti italiani furono rinchiusi ingiustamente nei GULAG in condizioni disumane.
O magari se si tratta di libri che riprendono l'agit-prop anticomunista.

Nel frattempo che attendo le sue risposte le mando un grande saluto e le auguro un buon inizio anno

FRANCESCO

Antonio ha detto...

La Repubblica Popolare Cinese è il proletariato cinese che si erge a classe sociale dominante sulla borghesia imperialista occidentale. L'economia cinese è quello che Deng ha chiamato "Socialismo di mercato", pianificazione e controllo all'interno dell'economia socialista statale, mercato per il capitale straniero, che comunque non può speculare con il capitale finanziario perchè il credito è saldamente nelle mani dello Stato e del Partito, ma solo reinvestire i profitti nella produzione o consumare, in tutti i casi a vantaggio dello sviluppo delle forze produttive, cosa a cui punta il partito e a cui tutti i comunisti dovrebbero badare maggiormente nel giudicare il Socialismo cinese. Una economia che non conosce i cicli tanto "cari" a noi occidentali di sovrapproduzione e recessione da decenni ha come presupposto il fatto che in Cina 1)non esiste una classe di sfruttatori "staccacedole" (rentier) alla occidentale che possidono i mezzi di produzione e il denaro, e 2)il Proletariato non deve vendere sul "libero mercato" (che in questo senso non c'è) le sue braccia come merce. Lo Stato (o le Province) impone il prezzo del lavoro artificialmente al di sopra del livello di sussistenza e il Proletariato cinese gode di un livello di benessere ormai sconosciuto alla stragrande maggiorparte degli operai occidentali). Tutto ciò è stato possibile solo al PCC (da Mao passando per Deng, Zu Enlai, Jiang Zemin fino a Hu jintao) e al suo Socialismo basato su una comprensione del Marxismo scientifica che ne ha colto il significato principale, che all'interno del mercato mondiale l'unico modo per il Socialismo di dimostrare la sua superiorità sul capitalismo è lo sviluppo delle forze produttive. I comunisti devono guardare alla Cina e alle conquiste del Proletariato cinese con spirito emulativo, tenendo conto delle condizioni specifiche dei rispettivi paesi con le rispettive storie.